CAPITOLO XVI

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San Francisco, Golden Gate Park

Le chiome gaudenti, che siano esse naturali o inglobate in forme geometriche ed eleganti secondo i precetti del niwaki[1], si specchiano tutte sullo stagno verde e placido. Che siano di cedri, pini, ginko biloba, aceri o salici –tutti importati dal Giappone – non importa: tutte sembrano volersi tuffare in quell'acqua luccicante sotto gli unici raggi del sole che le nubi non riescono a soffocare. Vari tipi di felci e cespugli ovali costeggiano le sponde ferme della superficie artificiale e, tra una camelia e l'altra, sbucano un paio di lanterne in pietra.

Oggi, i sentieri in pietrisco steccati da pali di legno chiaro non sono battuti da anima viva. Conducono su per la collina, fiancheggiata dalla cascata che alimenta il lago artificiale, fino alla pagoda di cinque piani che scintilla in tutto il suo rosso acceso e il piccolo tempietto, sopraelevato su quattro piloni, chiuso da un tetto ingombrante. Ancora dietro, s'innalzano come spine altri alberi, che cingono con una parete fonoassorbente e profumata quella piccola amena fetta di verde incastonata tra il marasma asfissiante della città e il ruggito prorompente dell'oceano.

Dall'altro lato del lago v'è un gazebo in legno, addossato all'ingresso del parco, che ricorda un antico cancello giapponese, con il tetto a padiglione a doppia falda, in stile irimoya[2]. Dai muri con tettoia bianchi che lo affiancano s'intravedono le chiome rosate dei ciliegi in fiore.

Sotto il gazebo, c'è il signor Zhou, che oggi indossa un completo italiano color navy in tre pezzi, una camicia con colletto inamidato a contrasto su popeline[3] azzurro polvere, chiusa a dovere da una cravatta color mandarino con un motivo a rombi. Sul suo petto, poco sotto la pochette della medesima fantasia, non pende più la spilla del Partito Comunista, bensì una del Partito Democratico; l'asino laccato di blu e rosso quasi acceca l'ospite con cui beve un matcha[4].

L'altro uomo è sulla cinquantina, ha i capelli sporchi di grigio, ma non molte rughe. Tra i denti, un sigaro Montecristo. Indosso, una polo color limone griffata, un comodo paio di pantaloni da golf color bianco e un maglioncino color menta annodato largo sulle spalle. Non ha ancora toccato la sua tazza di tè.

«Come mai ha scelto questo posto, signor Schuylkill?» domanda, guardingo, Zhou. Alle sue spalle, c'è il "fuochista" della sera prima. Seduti a un altro tavolo, Feng e un suo socio, più giovane. Il braccio destro del boss tamburella le dita sul tavolo e ogni tanto tira un'occhiata al radiotelefono mobile poco distante da esse. Schuylkill, invece, è solo.

«Mi è sempre piaciuta la calma che si respira qui. Ogni volta che sono a San Francisco, devo venirci per forza.»

«Strano che proprio oggi fosse chiuso per ristrutturazioni e non ci sia nemmeno un operaio.»

«Non è tanto difficile per il governatore della California.» Fa, sprezzante, Schuylkill.

«Beh, è un bel posto. Ma non mi vanno tanto a genio i giapponesi.»

«Posso capirlo. Ma la bellezza va oltre i confini.»

«Questo sigaro è molto buono. La ringrazio per il regalo.» Fa Zhou, che intanto aveva acceso il Montecristo portogli dal governatore.

«Non è molto facile ottenerli per via dell'embargo, ma un amico da Porto Rico me li ha spediti.»

«Capisco, capisco. Signor Schuylkill, come mai desiderava vedermi, oggi?»

«Zhou, ci conosciamo da vent'anni. Forse è il caso di usare il tu, no?» sussurra Schuylkill, per non farsi sentire dagli scagnozzi dell'altro che non sanno quanto in profondità vanno i suoi rapporti con lo Stato.

«Sai bene quanto pesino le apparenze nel nostro mondo.»

«Certo, certo. Ha ragione, signor Zhou. Ho saputo della parata di ieri sera.»

How to kill InnocenceDove le storie prendono vita. Scoprilo ora