CAPITOLO XVIII

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I pugni degli uomini della Tong si stringono. Quelli degli agenti stritolano l'impugnatura dei mitra.

«Fuoco!» grida, il leader.

Il corridoio viene attraversato dai lampi e dai tuoni delle loro MP5.

Tutta la prima ondata d'assalto della triade soccombe alla raffica. Il fuochista osserva paralizzato i suoi uomini imbottiti di piombo che si contorcono e gridano per il dolore.

Gli strilli degli ospiti si fanno sentire, così come quelle dei passanti fuori dalla struttura.

Il comandante, ancor più adirato, ordina un secondo assalto. E i suoi uomini, accecati dalla paura, scavalcano il muro di cadaveri.

Gli agenti riescono a sfoltirne la fila, ma poi sono costretti al corpo a corpo. Pochi sono gli spari provenienti dalla carne da cannone di Zhou, che si lancia all'attacco senza strategia e mancando la maggior parte dei colpi.

Non importa quanto mostrino i denti o gridino come belve; gli agenti non si fanno vincere dal timore e continuano a difendersi con precisi movimenti di baionetta.

Uno di loro cade. Quello più a sinistra è stato sopraffatto da due scagnozzi. Prova ad allungare il braccio verso la cavigliera, ma uno gli schiaccia il braccio sotto lo stivale.

Ormai è destinato a essere macellato dalle loro accette. Ma quando il braccio dell'altro si alza per colpirlo, scende all'istante, lasciando anche scivolare la mannaia a terra. Uno degli agenti lo aveva infatti colpito al cranio con il calcio dell'arma, tanto forte da mandarlo a terra, in preda alle convulsioni.

L'altro, che teneva fermo l'uomo a terra, s'alza per attaccare l'assalitore del killer. L'agente atterrato non perde tempo e raccoglie la mannaia. Mentre il compagno di squadra usa la sua arma come scudo dagli attacchi, la scaglia tra la clavicola e il collo del cinese con un impeto tale da polverizzargli le ossa.

Tira un urlo tremendo, da far gelare il sangue, che però si perde nel marasma. L'agente estrae la mannaia e macchia di sangue entrambe le maschere ancora candide. Poi, colpisce di nuovo, tagliandogli l'orecchio e squarciandone la guancia.

Gli altri vengono travolti in quella che è ormai una lotta alla sopravvivenza senza esclusione di colpi: calci, morsi, pugni, manganellate e colpi di pistola che mancano il bersaglio nella calca.

I loro avversari sono impossibili da contenere. Sono incuranti della loro sopravvivenza, come i soldati giapponesi nel Pacifico. Al minimo, superficiale taglio ricevuto gli agenti rispondono con violenza inaudita; sono stati anche loro assuefatti dall'odore della morte.

Alla fine della zuffa spietata di pochi minuti, non resta altro che un corridoio di cadaveri, le cui pareti – un tempo candide – sono dipinte di scarlatto. Tremante al cospetto del tumulo dei suoi, il fuochista rimane in disparte, con il respiro pesante e la sciabola che tentenna per quanto ne stringe l'elsa.

Gli uomini in nero si rialzano e rimangono fermi per qualche istante, mentre il sangue e la carne colano via dai loro "volti".

Lo stallo sembrerebbe non aver fine: entrambe le parti hanno i muscoli flessi, pronti a scattare, entrambe grugniscono mentre cercano di recuperare fiato.

Poi, uno sparo.

Il fuochista a terra come un manichino di pezza.

Dall'altro lato, ora, c'è uno dei suoi sottoposti, con il braccio destro quasi amputato e una rivoltella nella mano sinistra.

«Codardo!» urla, fuori di sé, prima di puntare ai mercenari.

Il braccio gli trema così tanto che rende impossibile esplodere un altro colpo; quindi, allunga il quasi moncherino a fargli da supporto.

How to kill InnocenceDove le storie prendono vita. Scoprilo ora