Solo problemi

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In quei primi anni scolastici, avevo assistito a tre ritiri, nove esaurimenti nervosi, cinque casi di ulcera e a diversi attacchi di panico, accompagnati da pietose crisi di pianto; ne avrei viste anche di più, ma un professore permaloso mi aveva fatta ingiustamente espellere, l'anno precedente, per il mio non aver ricambiato l'interesse inopportuno che nutriva nei miei riguardi.

Avevo perso fin troppo tempo, ma, per mia fortuna, tutti hanno almeno un segreto che non si vuol far conoscere agli altri. Grazie a un valido ricatto, ero stata riammessa nel migliore collegio dello stato, il LPA: istituto prestigioso che aveva sede nella nostra capitale marittima super lusso, Beornia, la città più alla moda di Biornia, ovvero la grossa isola situata nel mar Mediterraneo, giù, sotto lo stivale e la Grecia.

Era pieno pomeriggio e mi trovavo nella mia stanza, con le pareti dalle sfumature viola, nel sontuoso dormitorio femminile della scuola; accartocciai l'ennesimo bigliettino anonimo e lo lanciai dritto nel cestino, accanto alla scrivania, facendo centro al primo colpo.

Ma perché questo non mi insulta postando stories su Instagram come tutti i comuni mortali?

Negli ultimi mesi, constatai, me ne erano stati mandati diversi di quei biglietti, e tutti con frasette ridicole quali: "Mi vendicherò di te e ora lo sai", "Quelle come te... verrete tutte rieducate", "Ho problemi intestinali". Riflettei su come poco mi preoccupava tutto ciò, in quanto ritenevo normale l'essere odiata vista la popolarità che, in quella scuola, avevo raggiunto già dalle prime settimane in cui vi avevo messo piede.

Sto diventando davvero una brava attrice. Mi guardai allo specchio dell'armadio con fare pensieroso: l'immagine che vi veniva riflessa era quella di una ragazza ritenuta bella, seducente e sicura di sé.

Il visetto a cuore, da bambola di porcellana, ricambiò il mio sorriso arrogante. Eppure, mi sentivo così a disagio con la persona del riflesso, che dava a ognuno l'immagine di sé che volevano venisse mostrata loro: per la famiglia, lei era un'educata ragazza che obbediva sempre alle regole e che doveva eccellere in ogni campo; per gli studenti del collegio, era la regina stronza, colei che nessuno osava contraddire per timore di inimicarsela; per le donne dell'associazione di beneficenza – in cui aveva iniziato il tirocinio, perché in quel collegio pretendevano che ci si atteggiasse già ad adulti –, Pamela Monaldeschi era una piccola donnina matura e perfetta, oltre che un'ottima organizzatrice di eventi.

Ero un'attrice, un personaggio fittizio, in una vita che non mi apparteneva più. Era come se fossi diventata la protagonista di una serie televisiva senza senso e senza trama, con episodi che tiravano avanti per inerzia, personaggi secondari inutili e situazioni tappabuchi.

Non sapevo darmi delle risposte sul chi io fossi per davvero: mi ero persa dietro le mie innumerevoli maschere da non riuscire più a capire cosa fosse reale o non.

«Sei davvero incantevole», si complimentò Serena Castellani; la biondina si alzò dal mio letto disfatto per aiutarmi a sistemare i miei capelli mossi e scuri, che mi ricadevano soffici e delicati sulle spalle nude e chiare.

Pensavo spesso a come le ero grata di essermi amica e al non averle mai confessato di ritenerla molto più bella di me, e non solo a livello estetico: Serena era un'anima luminosa, una delle poche persone di cui sentivo di potermi fidare sul serio, anche se ritenevo ci fossero alcune cose di me che era meglio non sapesse nemmeno lei.

Gli insistenti occhietti azzurri di Serena, sul suo visetto innocente, mi continuavano a fissare, e in maniera diretta, attraverso il vetro dello specchio.

«Cosa c'è che non va?» le chiesi un po' troppo irritata.

Rimasi in sottoveste nello sfilarmi il vestito rosso, per potermi provare quello blu; l'abito era scivolato veloce lungo le mie gambe lunghe, afflosciandosi sul pavimento.

Il giglio di fuoco (SN7)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora