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Jackie

Conto fra le dita le mance ricevute questa sera, rimanendo sorpresa del risultato. Tra ieri e oggi ho ricavato quattrocento dollari, potrei sfruttarli sia per pagare l'ultima bolletta che per comprare qualcosa al cucciolo. «Ah, menomale che domani è sabato» si tocca i fianchi Elisabeth, guardando il disastro che hanno lasciato alcuni clienti sul tavolo. Annuisco, andando a prendere la scopa per spazzare in giro. Mi guardo intorno per il locale, ma non trovo da nessuna parte le altre due cameriere.

Quelle ragazze spariscono sempre.

Siccome ho tutta l'intenzione di tornarmene a casa prima, inizio a pulire in giro insieme a Elisabeth mentre le bariste si occupano della lista e del bancone. Quando finisco di pulire con la scopa, le due ragazze escono dal bagno con un sorriso fiero sulle labbra, entrambe conciate di tutto punto: è palese che abbiano voglia di andare a ballare. Oggi abbiamo finito prima del solito, ma questo non le esonera dal darci una mano. Infastidita dal loro atteggiamento, le richiamo. «Ragazze, dobbiamo ancora lavare il pavimento» le informo, mentre Elisabeth alza gli occhi al cielo di fronte alla loro scorrettezza. Entrambe sono giovani, due studentesse del liceo probabilmente. Quella dai capelli scuri e lisci mi guarda dall'alto al basso per poi fare spallucce. «Non lo stai già pulendo tu?» ammicca. «Dobbiamo darci una mano a vicenda, siamo colleghe. Elisabeth pulisce tutte le sere i tavoli e il bagno, io pulisco il pavimento e le scale» ricordo a entrambe.

«Appunto, pulite voi» ribatte ancora Sophie.

Assottiglio gli occhi, sentendo la rabbia pervadermi. Shaila, che ha ascoltato il discorso da dietro il bancone, le richiama con tono imperioso. «Guarda che stanno svolgendo il lavoro che dovreste fare voi» le indica. Le due si guardano brevemente, ma nonostante sospirino irritate alla fine vengono a darci una mano. Quando chiudiamo il locale sono le due e un quarto. Saluto le ragazze e in seguito mi dirigo al parcheggio con Ellie. Durante il tragitto chiacchieriamo dei nostri programmi per il fine-settimana e io la informo del mio nuovo amichetto a quattro zampe. «Non gli hai ancora dato un nome?» esordisce sconvolta mentre io mi copro il volto con la mano. Scuoto il capo imbarazzata. «No, ma ci sto pensando seriamente» specifico. «Insomma, un nome è per sempre» gracchio. Mi getta una breve occhiata, dandomi della pazza. «Devi scegliere un nome, mica farti un tatuaggio» sostiene, mentre io le lancio un'occhiataccia. Mi domando se quel cucciolo abbia messo a soqquadro l'appartamento, già ha fatto la pipì due volte stamattina e io non posso portarlo in giro senza un collare. Quando arrivo di fronte al palazzo ringrazio Elisabeth per il passaggio. Richiudo lo sportello, tirando fuori le chiavi dalla tasca della giacca per poi aprire il cancello. Minuti dopo, quando sono di fronte al portone del mio appartamento, mi mordo il labbro inferiore e spero con tutta me stessa che non abbia fatto danni.

Giro la chiave, spingo la porta e sporgo il capo.

«Ehi, pestifero» sussurro, notandolo di lato al divano. Se ne sta seduto, ma credo stia muovendo la coda adesso.

Accendo la luce, poiché vedevo solo grazie a quella dell'ascensore e dopo richiudo il portone alle mie spalle. Mi sembra che sia tutto in ordine, ma non voglio cantare vittoria così presto. Il cucciolo fa una specie di mugolio di gioia, scodinzola e io lo prendo in braccio divertita. «Hai combinato danni?» domando, sapendo che però non mi può rispondere. Continuo ad accarezzarlo sul capo, facendo il giro dell'appartamento per controllare che sia tutto a posto. Entro in bagno, trovando il tappetino sotto il lavandino bagnato: mi sembrava strano che non l'avesse fatta ancora. Prima di uscire l'ho nutrito con del latte e qualche fetta biscottata, non ho azzardato perché non so quale sia l'alimentazione di un cucciolo ancora. Rimetto a terra il combinaguai, iniziando a darmi da fare per pulire il disastro che ha combinato. Dopo aver spruzzato la candeggina nel tappeto e aver lavato anche a terra, alla fine posso farmi la doccia. Quando mi getto sul letto sono le tre ormai, sono esausta e ho la batteria del telefono al cinque percento. Mi rigiro tra le lenzuola, sentendo come un magone al petto. Questi sono i momenti in cui mi perdo a pensare, pensare alla mia famiglia e a quello che ho lasciato a Jacksonville. Avevo tutto: una famiglia perfetta, un lavoro che mi soddisfacesse e delle amiche. Non odio il lavoro che faccio adesso, mi aiuta a sopravvivere; tuttavia non è il lavoro per cui ho impiegato anni di studio. Inevitabilmente, il mio pensiero va anche a Beltran. Sarà tornato in sé? Sono passati tre mesi da quando sono scappata via da Chicago, mi domando solo se finalmente si sia arreso all'idea di cercarmi. Alla fine, non sono scappata da Beltran ma dal male che c'è in lui.

I miei pensieri vengono presto spazzati via dal piagnucolio del cucciolo. Giro il capo, vedendo due zampette nere graffiare le lenzuola. «Non puoi stare sul letto» scuoto il capo, ascoltando i suoi mugoli. Starnutisce e continua a grattare imperterrito, vuole che io lo faccia salire a tutti i costi. Gli ripeto che sul letto non sale, ma siccome è piuttosto ostinato, alla fine alzo gli occhi al cielo e lo accontento. «Ecco, soddisfatto?» sbuffo, mettendolo di lato a me. Annusa il cuscino, ma smette quasi subito per sdraiarsi affianco al mio braccio. Mi perdo a fissarlo per qualche minuto, anche lui mi guarda ed è come se entrambi ci fossimo trovati in qualche modo.

«Marvin» pronuncio, dal nulla.

Inclina il capo, facendo una faccia buffa che mi fa venire il buon umore. «Ti chiamerò Marvin» sorrido. Mi ritrovo a giocherellare con lui sul letto, insegue le mie dita e di tanto in tanto le mordicchia. Ci addormentiamo dopo qualche minuto, io con la testa sul cuscino e Marvin con la testolina sulla mia spalla. Il giorno dopo, siamo entrambi attivi e io non sento più la solita ansia accompagnarmi al risveglio. Marvin mi segue ovunque, zampetta e mordicchia tutto quello che trova mentre io faccio colazione con caffè e muffin. Ho parecchie cose da fare stamattina: andare a pagare la bolletta del gas, comprare l'occorrente a Marvin. Sarei tentata di portarlo con me: ho paura di quello che combinerebbe se lo lasciassi solo. Addento un altro pezzo di muffin, sentendo una specie di ringhio provenire dalla mia camera. Marvin passa sotto l'arco: ha tra i denti il lenzuolo del mio letto e se lo sta portando in giro senza scrupoli.

Scuoto il capo, ritornando fare colazione. Riesco a uscire di casa per le dieci e mezza, Marvin è dentro la mia borsa e di tanto in tanto sbuca la testa per guardarsi intorno. Mi sono appuntata alcune tappe in cui fermarmi, prima andrò a comprare l'occorrente al mio amichetto peloso. Il negozio degli animali dista a circa quindici minuti da casa mia, ma devo fare un bel tratto a piedi. Prendo il fiatone, aggrappandomi al muro di una tavola calda per riposarmi qualche minuto. «Ho bisogno di prendere una pausa» scuoto il capo, mentre Marvin abbaia dentro la borsa. Faccio una piccola sosta alla tavola calda, chiedo un bicchiere d'acqua al bancone e Marvin sbuca la testolina dalla borsa. La ragazza dietro il bancone sorride, avvitando la bottiglia d'acqua. «Come si chiama?» «Marvin» dico, dopo aver bevuto. Inclino il bicchiere, facendo dissetare anche il mio amico. Poiché la ragazza viene chiamata da un cliente, la saluto. Aspetto qualche minuto e dopo esco dal locale, dirigendomi al negozio di animali. Arrivati a destinazione, mi perdo tra la scelta dei giocattoli e dei collari. Prendo una pettorina blu elettrico, grazie all'aiuto del negoziante e in seguito acquisto i croccantini e degli integratori. Tra ciotole, salviettine e giocattoli finisco per spendere più di quanto immaginassi. Una volta fuori dal negozio, Marvin può finalmente camminare a terra. Passiamo davanti alla cabina telefonica, faccio di tutto pur di non guardarla e rigare dritto perché so che se mi concedessi la possibilità di chiamarli, di ascoltarli anche solo per un secondo, finirei in un baratro di tristezza infinita.

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