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Glenn

«Non guardarmi così Judith.»

Mia figlia mi guarda con occhi assottigliati, un chiaro segnale di quanto sia furibonda con il sottoscritto. Sinceramente, non so come dovrei comportarmi con lei: ultimamente è sempre irritata, inavvicinabile e posso pure capirla. Le avevo detto che sua zia sarebbe tornata presto, eppure sono passati tre mesi da quando l'ha vista l'ultima volta. Scuoto il capo, spegnendo il gas del fornello mentre lei finge di guardare un programma alla televisione. Niente è più come prima: se una volta sarei stato più che felice di partecipare a una cena di famiglia adesso prego che mia madre si scordi di me. Ritornare a casa è dura, mettere piede fra i ricordi è un incubo che si ripete spesso. Judith non è l'unica ad aver subìto delle ripercussioni, anche i miei non sono più gli stessi. Mio padre non parla con nessuno, a malapena esce dalla sua camera e ha abbandonato tutti i suoi hobby a cui più teneva. Mamma non tocca cibo, se ingerisce tre bocconi è già un grande passo. Sierra è sempre più nervosa, esce spesso di casa e litiga con mamma e papà come se non ci fosse un domani. E io, be', non me la vivo affatto bene. Preparo la colazione a mia figlia, tento di rallegrarle la giornata e creo delle faccine buffe sui pancake grazie al cioccolato. Quando la richiamo, Judith spegne la televisione e mi raggiunge. Adesso viviamo in un appartamento tutto nostro, avevo persino pensato di chiedere a mia sorella di venire a vivere con noi tempo fa – ma poi è successo l'impensabile.

«Guarda, non sono belle come quelle di nonna ma sono comunque delle faccine buffe no?» sorrido, tentando di stemperare quest'aria pesante. Judith guarda i pancake ricoperti di glassa, fa una smorfia ma si siede comunque sullo sgabello per mangiarli. Sarei anche contento della sua reazione, se soltanto non continuasse a tenere il muso. «Judith, tenere il broncio non ti servirà a niente» ribatto.

«Avevi detto che zia sarebbe tornata, ma non l'ha fatto!» esclama, alzando un po' troppo la voce per i miei gusti. Come spiego a una bambina che sua zia è scomparsa, non so neanche io dove sia finita per l'amor del cielo.

«Zia ha avuto da fare» mento, mentre lei sbuffa.

«Non è vero, sapete qualcosa che non volete dirmi!»

«Judith adesso basta, fai colazione e sbrigati» gesticolo, iniziando a lavare le padelle e tutto il resto. Le do le spalle, scappo dalle mie responsabilità ancora una volta ed evito di dirle la verità. La sento borbottare qualcosa sotto voce, ma credo che per adesso si sia arresa. Dopo averla portata a scuola, mi dirigo a casa dei miei per prendere le chiavi della falegnameria. Ho da montare alcuni scaffali, quindi avrò sicuramente modo di tenermi impegnato. Appena richiudo il portone di casa, alzo la voce per farmi sentire dai miei. «Sono venuto a prendere le chiavi, mamma» li chiamo. Entro in cucina, trovandola ai fornelli con un'espressione apatica in volto. Mia madre è dimagrita, non che prima fosse in sovrappeso ma ultimamente è diventata un chiodo. «Tesoro, le chiavi sono nel salotto» dice, senza guardarmi. Inspiro, andando comunque a prenderle per poi ficcarmele in tasca.

Rientro in cucina, perché sento di non poterne più di questa situazione. «Mamma, credo che dovremmo parlare» convengo, infilando le mani dentro le tasche dei jeans. Si volta a guardarmi, un'espressione stanca le colora il viso. «No, non dobbiamo» scuote il capo, freddamente.

«Non possiamo fare finta di niente» sbotto. «A malapena tocchi cibo, papà non è più lo stesso e Sierra scappa di casa per non dover affrontare la realtà.»

«Tua sorella è scomparsa, Glenn» dice di colpo, usando un tono afflitto. «Credi che dovrei fare le capriole? Come posso mangiare, anche solo sorridere quando mia figlia è scomparsa nel nulla!» esclama, le si spezza la voce e adesso la rabbia prende posto alla sofferenza. «Non so se sia viva, se stia bene e tu pretendi che io faccia finta di niente?» scuote il capo.

«Non ti ho chiesto questo» mormoro.

«Invece perché non parliamo di te?» ammicca, «ti rinchiudi in falegnameria e sfrutti Judith per evitare noi altri. Ti stai nascondendo dalla realtà, perché fa troppo male» arranca, stringendo i pugni contro i fianchi. Una lacrima, un'altra ancora solca la sua guancia e io sono a corto di fiato. Mia madre ha ragione, scappo da loro perché entrare in questa casa mi fa venire il voltastomaco. Vedere anche solo una foto di mia sorella è pura sofferenza e sapere che niente è più come prima è un incubo senza fine.

Siamo tutti a pezzi.

«Non si può andare avanti, non senza tua sorella» sostiene. Guardo altrove, sentendo una morsa allo stomaco. Il telefono vibra in tasca, so chi è ma per adesso preferisco non rispondere: non credo sia il momento.

«Non è morta, è solo scappata via» le ricordo.

«Non sappiamo neanche se stia bene!» scuote il capo.

«Confido in lei, so che prima o poi si farà sentire e noi dobbiamo avere solo la forza di tirare avanti affinché arrivi quel giorno» ripeto, scostandomi dal muro. «Ora devo andare al lavoro, ma più tardi passerò con Judith» la informo. Mi dirigo verso il portone, sentendo i suoi singhiozzi disperati ma stavolta non mi lascerò trascinare dalle paure di mia madre. Voglio credere che mia sorella sia viva, lontana ma viva e vegeta. La mattinata passa in fretta, tra un lavoro e un altro fatturo dei soldi da mettere da parte. Verso le due vado a prendere Judith da scuola e la porto a casa dei miei. Mi fermo con l'auto davanti al vialetto, Judith si volta a guardarmi e mi chiede perché non scendo. «Esco con un amico, ma sarò di ritorno pomeriggio.» Annuisce leggermente, ma mi lascia comunque un bacio sulla guancia per poi aprire lo sportello. Non parto finché non richiude il portone. Sierra scosta le tende della cucina e mi guarda con freddezza – la saluto con la mano, ma lei mi ignora e abbandona la tenda. Prendo un profondo respiro, mettendo la prima per poi avviarmi al Twenty Nine. Quando arrivo, mi accorgo di alcuni clienti seduti ai tavoli del bar. Poggio i gomiti sul bancone lucido, ammiccando al barista calvo e grasso. «Rum doppio» ordino, passandomi una mano tra i capelli. Qualcuno mi tocca la spalla, volto il capo e scorgo proprio chi aspettavo. «Ehi, scusa per le mancate risposte ma ho passato un periodo di merda» arranco. Alzo il capo, osservando la faccia sfatta del mio amico Ben.

Indossa una giacca di pelle nera, una maglietta grigia e dei jeans semplici. Ha la barba da qualche giorno e, nonostante sorrida, sembra che qualcosa lo stia mangiando da dentro. «Non preoccuparti, ho avuto anche io da fare» si schiarisce il tono, continuando a stringermi la spalla. «Allora, cosa mi racconti?» domanda, ordinando due shottini di Whiskey subito dopo.

«Niente di nuovo» sorrido amareggiato.

Per pochi secondi, mi sembra quasi che il suo sguardo si scurisca. «Dunque non avete ancora notizie» si lecca il labbro inferiore, guardando le bottiglie sullo scaffale. Ben mi è stato vicino durante la scomparsa di Jackie. Lo avevo incrociato per caso il giorno in cui mi sono trasferito nel nuovo appartamento con Judith, ma in seguito ho avuto modo di rivederlo. Si è mostrato molto presente con la sparizione di mia sorella, credo di avergli trasmesso la mia preoccupazione. «Sai cosa non capisco?» scuoto il capo, riflettendoci meglio. «Non capisco da chi mia sorella stesse scappando, il giorno in cui ha tagliato i ponti con noi disse che qualcuno l'avrebbe cercata ma non capisco chi: non ha nemici» affermo. Ben mi ascolta in silenzio, mi sta vicino e tenta di capire come io possa sentirmi. Per lo più si scola gli shottini di Whiskey e annuisce a ogni mia parola. A un tratto si volta a guardarmi, sulla sua faccia leggo un'espressione dispiaciuta. «Spero che possiate trovarla» si mostra compassionevole e io lo ringrazio. «Mi basterebbe anche solo sentire la sua voce, non chiedo altro» scuoto il capo, sperando in cuor mio di ricevere sue notizie al più presto.

D'altronde, il silenzio è il male peggiore.

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