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Brett

Sono caduto così in basso da farmi vergogna da solo.

Alzo pigramente gli occhi sull'uomo dietro la scrivania, il dottor Moseby. Se ne sta lì, con il suo taccuino aperto e gli occhiali calati sul naso a schiacciare convulsamente il tappo della penna con cui scrive. «L'insonnia è tornata, non è vero?» ammicca, mentre io arriccio le labbra e devio lo sguardo. «Lo prenderò per un sì» soffia, scrivendo qualcosa sul foglio. «Le consiglio di prendere le pillole che le ho prescritto, altrimenti si ritroverà a non avere neanche un briciolo di forza in corpo» accenna, abbassando gli occhi sul suo portatile. Considero il dottor Moseby un uomo sveglio, esperto nel suo campo – dunque non capisco cosa gli faccia credere che io lo ascolterò.

«Continua a prescrivermi pillole inutili» mi lamento.

«E lei continua a non ascoltarmi» scuote il capo. «Non deve sottovalutare l'insonnia: il riposo è molto importante sia per la mente che per il corpo» mi dà un'analisi che non ho chiesto.

«Non sono qui per l'insonnia, dottore» gli ricordo.

Si lecca il labbro inferiore, sono abbastanza sicuro di farlo uscire fuori di testa. «No, lei si è presentato alla mia porta senza alcuna documentazione, non era neanche prenotato e ha preteso che io l'aiutassi a farlo tornare "normale"» fa le virgolette alte.

«E finora ha svolto il suo lavoro in modo pessimo.»

Accusa il colpo, ma presto alza il mento e mi analizza.

«Se non mi sbaglio, e non mi sbaglio, le ho chiesto un milione di volte di raccontarsi e si è sempre rifiutato» mi accusa. «Nonostante sia un mio paziente da ormai più di un mese, continua comunque a fare di testa sua senza degnarmi mai di mezza risposta» specifica, indispettito. Devo averlo davvero irritato con le mie parole di prima, non credo di averlo mai visto così spazientito. «L'indisponenza non porta mai da nessuna parte» dice.

«Neanche le pillole» aggiungo, privo di entusiasmo.

Sono abbastanza sicuro che a breve mi caccerà fuori dal suo studio. Prima di essere sbattuto fuori, decido di alzarmi dalla sedia di mia spontanea volontà.

«Meglio che vada ora, ho altro da fare» esordisco.

«Chiude persino la seduta?» alza un sopracciglio.

«Vuole continuarla?» domando, voltandomi in sua direzione. Scurisce lo sguardo, indicandomi la porta. «Esca, oltrepassi quella porta solo quando sarà propenso a parlare altrimenti non si prenda il disturbo di ritornare.» Curvo le labbra in un sorrisetto compiaciuto: mi piace fare incazzare le persone, soprattutto quelle che si sforzano di essere pazienti. Richiudo la porta alle mie spalle, uscendo dallo studio del dottor Moseby. A seguito della scomparsa di Jackie ho fatto avanti e indietro tra Chicago e Jacksonville. Nei fine settimana torno nel mio cottage, esco con Glenn Hole e tento di insinuarmi nella sua vita familiare pur di scoprire che fine ha fatto sua sorella. Quella scellerata, se ripenso a quando sono rientrato nel vialetto di casa e ho trovato la finestra rotta mi viene voglia di uccidere qualcuno. Non credevo che potesse scappare, anzi, non credevo sarebbe arrivata a tanto.

Pensavo che i suoi sentimenti per il mio alter-ego l'avrebbero tenuta zitta e buona su quel divano, invece mi sbagliavo. Ci sarà sempre una parte di lei che le dirà di scappare via da me, ormai è chiaro questo. Scuoto il capo, cambiando marcia all'auto per poi fermarmi a un semaforo. Il tempo scorre, la gente continua a passeggiare tranquilla sul marciapiede mentre questo strano blocco che ho allo stomaco non se ne va via. Tamburello le dita sul manubrio con seccatura, fin quando non scatta il verde e riparto. Attualmente sono a Chicago, sono rientrato in città ieri sera sul tardi. Mi tengo sempre in contatto con Glenn durante la settimana, attendo notizie o risposte positive che alla fine non arrivano mai. Dunque vado avanti con la mia vita, ignoro queste continue fitte allo stomaco e fingo che vada tutto alla perfezione.

Menti a te stesso.

Il mio alter-ego, ogni tanto, se ne esce con una delle sue cazzate. A me non manca la psicologa, posso fare a meno di lei perché non provo sentimenti nei suoi confronti.

Menti ancora.

Strido i denti, arrivando nel vialetto di casa per poi spegnere le luci. Tiro il freno a mano, metto la prima e in seguito giro la chiave. Quando entro in casa, il silenzio mi avvolge. Come per riflesso, i miei occhi si posano sulla finestra aggiustata del salotto. Inspiro, stringendo i pugni non appena torna a farsi presente quel peso allo stomaco. Lascio le chiavi sulla penisola della cucina, per poi dirigermi al piano di sopra. Entro in bagno, mi tolgo la maglietta e la getto alle mie spalle. Mi sciacquo il viso, il collo e dopo alzo il capo.

Non ho mai avuto un aspetto tanto raccapricciante.

Socchiudo gli occhi quando il mal di testa torna a farsi vivo, stringo il marmo del lavandino sentendo di nuovo la voce di Beltran nella mia mente. Continua a ripetere che è colpa mia, che se non fosse stato per me non sarebbe fuggita e questo fa sì che io mi agiti.

«Smettila» sibilo, stridendo i denti.

Sai che è colpa tua.

«Basta» mormoro, abbassando il capo.

Sei un mostro.

«SMETTILA!» urlo a gran voce, dando un pugno contro il vetro dello specchio. Respiro velocemente, i cocci di vetro sono conficcati nelle nocche e il sangue sgorga dai tagli già aperti. Impreco, tirando via la mano con rabbia. Tra me e Beltran c'è sempre stata comprensione, complicità – ma da quando quella maledetta ragazza si è messa in mezzo le cose sono andate a puttane. Lei lo ha reso debole, lo ha allontanato da me e ora è tutto un casino perché lui vuole rendermi comune, normale. Ma non accadrà, non mi lascerò trascinare giù da quei due idioti. Alzo gli occhi verso lo specchio, prendendo una decisione dalla quale non si torna più indietro. Non mi importa delle ripercussioni, so solo che quando scoprirò dove si trova Jackie andrò dritto da lei e la ucciderò con le mie stesse mani. Non sarebbe mai e poi mai dovuta entrare nelle nostre vite, non avrebbe dovuto impossessarsi della mente di Beltran. Questa storia è fin da sempre stata un errore e, appena la troverò, porrò fine a questo scempio una volta per tutte. 

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