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Jackie

Getto un'occhiata distratta alla fila d'avanti a me, nessuno sa che sto per inviare una lettera di scuse alla mia famiglia, una lettera che segnerà per sempre la fine degli Hole probabilmente. Non pecco di presunzione, ma riconosco di svolgere un ruolo fondamentale a casa mia. Mi domando come potrà mai capirmi Judith per averla lasciata. Mi chiedo se mia sorella riuscirà mai a perdonarmi per averle fatto più da madre che da confidente. Ma soprattutto spero con tutta me stessa di non rovinare la vita ai miei genitori oltre che a mio fratello. Mi mordo il labbro inferiore, compiendo un passo avanti quando l'ennesima cliente va via allo sportello. Quando è il mio turno, la signora dagli occhiali spessi e il caschetto color rame mi chiede che servizi richiedo e io alzo la mano con la lettera. Annuisce, facendomi segno di porgergliela. Allungo il braccio con il cuore palpitante, alla fine non fa nient'altro che gettare la busta dentro il porta lettere alle sue spalle. «Le consegne verranno effettuate domani» avvisa. Annuisco, continuando a guardare il punto in cui ha lanciato la lettera. Urla "avanti il prossimo", dunque mi sposto per non accrescere la coda. Una volta fuori dal deposito delle poste mi aggrappo al muro, sentendo l'aria mancarmi. Credo di star per avere un attacco di panico, proprio in questo istante sento il telefono vibrare nella tasca dei jeans. Lo prendo in mano, leggendo il nome B&B sullo schermo. Non ignoro la chiamata, ma non rispondo, sono troppo impegnata a prendere respiri profondi.

Ripongo il telefono in tasca, scendendo i gradini per poi dirigermi verso la fermata del pullman. Stasera avrò il volo per Chicago; la valigia è pronta, il borsone pure e niente potrà fermarmi dal partire con Marvin, niente tranne i sensi di colpa. Brett prova a richiamarmi appena scendo dal pullman, quindi rispondo per non renderlo nervoso. Appena mi compare il suo viso sullo schermo, mi sembra furioso. «Si può sapere perché non rispondi al telefono?»

«Ero alle poste, stavo consegnando la lettera.»

«Non potevi scrivermi un messaggio?» sbuffa.

Ha ragione, ma non ci ho pensato.

«Brett non rendermi più agitata di quanto già sono, per piacere» strido i denti. Siamo entrambi scontrosi per la partenza o magari perché abbiamo paura di un nostro ipotetico futuro insieme, non saprei. So solo che mi basterà averlo vicino per far sparire la mia agitazione. Battibecchiamo per telefono, nulla di realmente serio ma secondo lui sono un'isterica e invece secondo me lui è poco riconoscente. «Non provi mai a metterti nei miei panni» brontolo, aprendo il cancello del palazzo. «Maledizione, sto stravolgendo tutti i miei piani per te e tu non fai altro che lamentarti» sbotto, salendo poi i gradini. «Non sei l'unica a essere scesa a compromessi dottoressa, devo ricordarti quanto abbia abbassato la cresta negli ultimi mesi?» sbotta. La litigata continua anche in ascensore, termina solo quando richiudo il portone di casa. «Senti, non ho voglia di litigare» sbuffo, dirigendomi verso il divano. «Ho solo voglia di pranzare e di dormire, perché tra poche ore ti ricordo che verrò a convivere con te» puntualizzo.

«Sono nervoso» rivela, lasciandomi di stucco. Gli chiedo perché, sentendolo sospirare. «Non lo so, forse perché ora convivere con te sembrerà più reale» spiega con un tono quasi sensibile. «Inoltre continuo ad avere il mal di testa, dormo poco e non riesco a concentrarmi.»

«Mi dispiace» mi ritrovo a dire.

Un minuto di silenzio ci avvolge, entrambi con molti pensieri per la testa ma con tanta voglia di viverci. Resto al telefono con lui per ancora qualche altro minuto, riesco pure a convincerlo a farsi un pisolino. Mezz'ora dopo chiudo la chiamata, andandomi a preparare il pranzo per tenere la mente occupata. Le ore passano più veloci di quanto credessi, l'agitazione aumenta di secondo in secondo quando per le sei e mezza arrivo all'aeroporto grazie all'Uber prenotato. L'uomo mi aiuta a scaricare le valigie, carico il borsone in spalla e con una mano tengo la valigia mentre con l'altra la gabbietta di Marvin. Dopo aver effettuato il cheek-in, attendo in fila e per proseguire al gate. Esibisco i documenti alla Hostess, dopo aver ricevuto il suo ok proseguo verso il varco. Quando mi siedo sul sedile tiro un sospiro di sollievo, lego la cintura e stringo fra gli stivali la gabbietta di Marvin preparandomi mentalmente a due ore e mezza di volo. Durante il viaggio chiacchiero qualche minuto con l'altro passeggero al mio fianco, un anziano che va a trovare sua nipote da quanto ho capito. Mi passo il tempo ascoltando la sua storia, mi chiede chi ci sia dentro la gabbietta e io gli dico di avere un cane.

«Mia nipote è ossessionata dai criceti, ne ha tre.»

«Come si chiama?» indica il cane con l'indice rugoso.

«Marvin, è un cucciolo di labrador.»

Mi chiede altre informazioni sulla razza, ma non essendo esperta gli dico solo che è un cane socievole e fedele. Il viaggio passa, a modo suo, anche se più di una volta ho sentito la nausea e ho dovuto chiudere gli occhi per rilassarmi. Quando atterriamo a Chicago tiro un sospiro di sollievo, togliendomi la cintura con smania e violenza. L'anziano al mio fianco, Frankie, mi dà una mano a prendere il borsone in alto oltre che la valigia e io lo ringrazio. Dopo una serie di scale e corridoi, alla fine varco le porte dell'uscita e in lontananza vedo diversi familiari con sorrisi nostalgici sulle labbra. In fondo, appoggiato al muro, trovo il mio uomo con indosso la giacca di pelle, la maglia nera e un jeans azzurro. Sorrido, mentre lui curva le labbra in un mezzo ghignetto. Viene in mio soccorso, anche se con passo misurato. Prende la valigia, il borsone e si china per lasciarmi un bacio lento ma significativo, con tanto di mano sul fianco. Mi tira il labbro inferiore tra i denti, facendomi scappare un lieve gemito. Appunto, averlo al mio fianco è tutta un'altra storia. «Com'è andato il volo?» domanda. «Bene, ho fatto amicizia con un signore di nome Frankie» lo informo, aprendo la gabbietta di Marvin per prenderlo in braccio, visto che sembra ancora traumatizzato. Ammetto che mi era mancata l'aria fresca di Chicago, i lampioni sempre accesi e l'odore di caffè caldo nell'aria. Brett mi conduce alla sua Ferrari d'epoca rossa, apre il portabagagli e poggia tutto al suo interno mentre io prendo il mio posto davanti con Marvin. «Siamo a casa» sussurro al cucciolo, accarezzandolo mentre mi sistemo sul sedile.

Brett apre lo sportello della sua auto, monta su e poi gira la chiave nel nottolino. «Bene, direi di svignarcela.» Mette in moto, guarda gli specchietti e poi parte immettendosi in corsia. Ora che ci penso non ho ancora cenato, spero abbia fatto la spesa per noi due altrimenti ci converrà ordinare la cena da qualche parte. Guardo il panorama fuori dal finestrino, sentendo i suoi occhi addosso di tanto in tanto.

«Come stai ora?» domando, riferendomi al mal di testa.

«Credo vada meglio» confida, guardando dritto.

Sorrido, poggiando la testa contro lo schienale.

Tra il viaggio, lo stress e l'agitazione finisco per addormentarmi in auto. È proprio Brett a svegliarmi quando arriviamo a destinazione. Sbatto le palpebre con stanchezza, osservando la casa a due piani alla mia destra. È proprio come la ricordavo, bianca all'esterno e con le finestre in legno lucido. Il prato è curato, anche le siepi e sicuramente Marvin si divertirà un mondo da queste parti. Scendo dall'auto, poggiando il cucciolo sul prato di medie dimensioni. L'ultima volta che sono stata qui sono fuggita via come una ladra – per riflesso i miei occhi puntano alla finestra del salotto che, un tempo, avevo rotto ma che ora è sana. «Scapperai di nuovo?» si rivolge a me Brett, con un sorriso maldestro che mi contagia.

«No, non stavolta» lo rassicuro.

Stavolta sono qui per restare.

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