Atto 2 - Il giornalista iena

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La sveglia era suonata alle sei e trenta. Con quattro ore di anticipo rispetto alla proiezione e sei rispetto alla conferenza stampa, ma c'era ancora da rivedere le domande previste e lui voleva che fossero perfette. Sempre che quella stronza dell'ufficio stampa avesse concesso più di un intervento alla rivista che rappresentava.

Mentre il caffè sul fuoco a manetta era già salito, inondando il piano cottura, era andato in bagno per controllare che l'acqua calda uscisse con fiotti umani, piuttosto che raggelarsi non appena aggiunto un filo di flusso freddo, giusto per non ustionarsi. Il risultato era stato degno del miglior torrentello di montagna in tempo di secca: poca e ghiacciata. Tornò in cucina sforzandosi di non prenderlo come un segno che la giornata sarebbe andata tutta a puttane e che il suo intervento sarebbe stato come quel filo d'acqua. Sul glaciale poteva starci. Anzi, voleva starci. Non come quei ruffiani dei suoi colleghi, che sbrodolavano addosso al cast complimenti pure in caso di film inguardabili. Quello era solo ingraziarsi l'ufficio stampa, non fare il proprio mestiere.

Versò in una tazzina il poco caffè rimasto, dal gusto amaro e tostato, e sedette al tavolino rettangolare sotto la finestra aperta. Il vento freddo gonfiava le tendine ordinarie e il rumore di un clacson lo restituì al presente. Chiuse la finestra, sistemò davanti a sé i fogli su cui aveva lavorato fino a tarda notte e si accinse a mettere i voti. Alti, naturalmente, per quanto riguardava le sue osservazioni, bassi, anzi sotto lo zero, per quanto riguardava tutto il resto. Dalla recensione che aveva fatto del film, visto in anteprima rispetto all'anteprima stampa, grazie alla Rete, non ne usciva pulito neppure il costumista. Altro che premio Oscar! Aveva infilato sulla parrucca di quella cariatide del protagonista un panama modello successivo agli anni d'ambientazione della pellicola, un classico di quando si è mezze seghe pagate fior di quattrini per una statuetta rubata a qualcuno meno raccomandato. Un furto che diceva: tutto il mondo è paese. Lui lo aveva scoperto confrontando online vari modelli con quello indossato da Corallo, alla ricerca dell'errore, ed era stato fortunato.

Che dire poi della sceneggiatura, un colabrodo che non tratteneva neppure la melma del soggetto. Una diarrea a spruzzo che quella stessa mattina, prima della conferenza, avrebbe inondato tutta la stampa romana, naturalmente contenta di farsi sommergere in una cloaca, pur di firmare un insipido pezzo su un insignificante supporto. Non che il suo, di supporto, fosse d'oro. Una rivistina che aveva avuto il suo momento di gloria qualche anno prima, quando c'era un po' di grana derivante dai fondi per la cultura, ma che negli ultimi tempi, causa penuria di entrate, si assottigliava sempre di più, spalmando pressbook sulle pagine come fossero pezzi di grido. La sua firma, però, era il fiore all'occhiello, l'unica rimasta a percepire compensi quando figurava. Troppo poco, in verità, massimo su un paio di recensioni al mese, quando non riusciva a rimediare un'intervista privata. E se non ci riusciva, certo non era per colpa sua.

Era diventata una giungla, quella della critica cinematografica, nella quale si muovevano strani animali non autoctoni ma ansiosi di partecipare al grande gioco. Tanto ansiosi da non chiedere neppure un compenso per il lavoro – se così la si voleva chiamare quell'accozzaglia di copia e incolla – svolto a tempo di record. Lui invece era uno che il pezzo lo partoriva: il rapporto con la pellicola, non sempre soddisfacente anzi quasi mai, innestava nel suo cervello quell'embrione che, una volta nutrito, coccolato e accudito, sarebbe diventato il pezzo forte del nuovo numero. Un parto, ecco come vedeva ogni sua recensione, ogni sua intervista. Lì però c'era poco da partorire.

Il film non c'era bisogno di vederlo in italiano per sapere che era una cazzata da stroncare. Di sicuro il doppiaggio non avrebbe risolto la situazione. L'unica arma in possesso di Gola Profonda, o Voce di Velluto come qualche fan senza capacità di discernimento ancora si intestardiva a chiamare il protagonista, tra qualche ora non avrebbe più potuto sparare grazie al solito pessimo doppiatore che stava a lui come le corna a un santo.

Lo sguardo scorreva amorevole su parole come infedele, deludente, deriva, abbaglio, su frasi come Da quindici anni soffocato da quel panama, simbolo di un noir presunto tale, oppure Un brutto epitaffio su una carriera che volge al declino, in un'inquietante analogia con il protagonista.

Qui chiuse gli occhi e assaporò il momento in cui il lettore avrebbe bestemmiato. Uno spoiler che sottolineava il disprezzo di chi scriveva. Che il detective Corallo schiattasse solo a cinque minuti dalla fine del film poco importava. Il lettore doveva saperlo subito, se voleva evitare di diventare spettatore. A parte i fan senza capacità di discernimento, di sesso femminile per lo più. Neppure il più persuasivo dei critici sarebbe riuscito a far capire loro che la voce di velluto era diventata da un pezzo il fruscio di un plaid di lana sulle gambe di un nonno rincoglionito. A parte qualche eccezione, e doveva soltanto a se stesso l'orgoglio di avere indottrinato almeno un paio di scriteriate sull'argomento.

Il cellulare prese a ronzare sul tavolo. L'orologio segnava già le otto e non aveva ancora prodotto la stesura finale.

La voce atona e un po' perentoria del caporedattore lo informò di avere forse ottenuto un colloquio con il protagonista, subito dopo la conferenza, e che sarebbe stato meglio per lui se quella volta ci fosse andato piano con le critiche e il sarcasmo. Aveva dovuto promettere che non solo sarebbero stati cauti, ma perfino generosi con quella che la distribuzione considerava la pellicola più importante della stagione.

«Sono mesi che ci sogniamo una privata, non fare lo stronzo pure questa volta, altrimenti chiudiamo definitivamente.»

Come no. La chiamava 'privata', un'intervista di massimo cinque domande. A starlo a sentire, era colpa sua se non davano più i fondi, se la rivista stava colando a picco con le vendite, se i film erano sempre più scadenti. Magari era colpa sua pure che quel giorno pioveva a secchi.

Era la critica feroce che metteva un po' di sale in quell'ammasso di luoghi comuni, le sue domande taglienti, quelle che il lettore aspettava con ansia in un mondo di buonisti. Per chiuderla lì, promise però che ci sarebbe andato piano, anche se il film faceva vomitare, commento quest'ultimo che ottenne il risultato che sperava.

«Quando l'avresti visto?» chiese stancamente il caporedattore.

«Ti assicuro che è inguardabile» rispose evasivo il giornalista.

«Insomma, qualcosa sarà sfuggito durante la proiezione del Cam scaricato sul tuo tredici pollici scarsi, immagino.»

Non c'era verso di farlo ragionare. Avrebbe dovuto farlo lui il caporedattore e non quel verme sottomesso agli uffici stampa. Promise di fare del suo meglio, con un ghigno che il suo interlocutore non vide, ma che dovette immaginare. Non c'era tempo per sostituirlo con qualcuno più morbido: quella privata era arrivata piuttosto inattesa.

Chiusa la comunicazione, rifece il caffè, attento questa volta a non farlo traboccare sulla piastra già incrostata. Pregustava il momento in cui si sarebbe trovato faccia a faccia con il protagonista di quel fiasco. Non c'era bisogno di buttare giù le domande che gli avrebbe posto. Erano già tutte nella sua testa e la dicevano lunga su come la pensava su quell'interpretazione. L'ultima, si augurava, anche se, come insegna il cinema, la morte del protagonista non significa proprio niente.

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