Atto 3 - Interno: bagno

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Elisabetta aprì lentamente gli occhi. La bocca arida e amara, la mente annebbiata e la sensazione che un elicottero avesse operato un atterraggio d'emergenza nella sua testa. Un grosso e pesante Boeing Chinook che al primo battito di palpebre mise in funzione la doppia elica affettandole il cervello come carpaccio. Cercò di mettere a fuoco, con grande difficoltà, ciò che aveva davanti. Sulle prime vide solo qualche ombra. Poi, riconobbe la luce a neon della toilette, il pavimento di piastrelle bianche, l'odore di disinfettante, e ricordò gli ultimi istanti di lucidità. Davanti a lei c'erano un sorriso vago e occhi stralunati, quasi febbricitanti, di un intenso verde e con una piccola cicatrice sotto l'occhio sinistro.

Non riusciva a respirare, i polmoni sembravano spugne aride, ma si impose di farlo subito altrimenti sarebbe morta. E non era giusto morire in un bagno che non era neppure quello di casa sua. Succhiò aria rantolando e si accorse di essere imbavagliata, ma non era quello l'unico impedimento al respiro e ai movimenti. Era legata in modo stretto, i polsi sovrapposti.

«Se tutto va come previsto e il tuo amico racconta le cose giuste, non devi temere nulla.»

Il ragazzo che aveva di fronte sembrava parecchio agitato, notò Elisabetta con quel poco di lucidità recuperata. Sfuggiva al suo sguardo e si muoveva a scatti, come chi non sappia dove andare né cosa fare. A giudicare da come l'aveva immobilizzata, però, doveva sapere benissimo quello che stava facendo.

«È solo un anestetico, non preoccuparti. Tutto sarà finito in poco tempo.»

Tutto. Tutto cosa? Cercò di annaspare tra gli ultimi attimi che ricordava. Una toilette, delle cabine, lei e Sinclair che erano stati interrotti da Freddi. Lei che toccava Sinclair, incoraggiato. Poi lui era scomparso nel bagno. Lei era entrata in sala e Riccardo le aveva chiesto di andare a controllare perché Sinclair brillasse per la sua assenza. Un pensiero erotico: la stava aspettando in bagno per far sentire entrambi molto meglio. Le cabine vuote, Sinclair che non rispondeva ai richiami. E poi quell'ultima visione, Sinclair con lo sguardo atterrito e quel ragazzo con l'aria febbricitante che puntava al suo petto una pistola. Poi un dolore intenso.

Strinse gli occhi e avvertì una fitta alla base della nuca. Un colpo in testa, possibile.

«Chi sei?» provò a dire, ma attraverso lo straccio che le serrava la bocca uscì un incomprensibile lamento. Non doveva farsi prendere dal panico.

Il ragazzo si avvicinò. Lo sguardo piretico fisso su di lei mentre le abbassava il bavaglio spingendo al contempo la canna della pistola contro la sua costola.

«Cosa succede?» chiese in un flebile singulto.

«Lo sa lui», rispose il ragazzo.

Elisabetta decise che per il momento, con una pistola puntata contro, non era il caso di insistere. Cercò di valutare la situazione. Non che ci fosse un manuale per quello. Come un'addetta stampa può uscire da una situazione anomala: quando si viene rapiti a un'anteprima e lui ha una pistola e lei è legata, bisogna agire nel seguente modo. Se lui blatera che l'altro sa cosa fare e così tutti sono salvi, non bisogna contraddirlo. La realtà, immaginario manuale a parte, è che lei non sa di cosa stia parlando il matto e non è detto che tutti si salvino. Infatti quella seconda parte l'aveva aggiunta lei.

Il ragazzo la guardava interessato.

«Avevi pensato di fartelo in bagno?» le disse con l'aria più naturale del mondo. Elisabetta ci mise qualche minuto a capire e poi decise di non contrariarlo.

«Quasi. Senti, non ho avuto alcun rapporto con lui, che non è attratto da me e neanche lo sapeva che l'avrei raggiunto in bagno. L'iniziativa è solo mia. No, del mio capo.»

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