PARTE TERZA - VIALE DEL TRAMONTO Atto 1: Il portafortuna

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«Sei scappata come una ladra e questo mi sembra un giusto appellativo. Sai, tengo molto a quella sciarpa. E all'altro oggetto. È il mio portafortuna», le disse tagliente Sinclair quando riuscì a raggiungerla al cellulare.

Elisabetta era in macchina, a pochi metri dall'albergo.

«Chris aveva una fedina identica» gli disse.

«Ti riferisci all'inglese?»

«Sai benissimo chi è Chris, anche se il suo nome probabilmente non era questo. Jamie, che parte hai in questa storia?» Elisabetta stava lottando per non scoppiare a piangere. Come sempre, in quei casi, aggrediva per non fare la figura della debole.

«Torna in camera e ti spiego», le disse Sinclair con voce profonda.

Lei fermò la macchina. «No, vediamoci nella hall, tra un'ora. Ho bisogno di riflettere, di stare un po' da sola.»

«Come vuoi» le disse Sinclair secco. «Purché tu non rifletta troppo, facendoti dei film sbagliati.» Chiuse la conversazione.

Dopo un'ora erano uno di fronte all'altra, in mezzo alla gente che arrivava e partiva in quella hall anonima, uno spazio di transito non immaginato per le relazioni. Fu Sinclair a muoversi per primo, Elisabetta lo fissava come impietrita. Le si avvicinò tendendole la mano, sulla quale c'era un fermacapelli.

«Hai dimenticato questo», le disse. Elisabetta lo prese e lo mise nella borsa.

«Ora dovresti restituirmi ciò che è mio», continuò Sinclair dolcemente. Elisabetta però scosse la testa.

«Ho lasciato la sciarpa in macchina. E non solo quella. Spiacente, ma finché non mi chiarirai come stanno le cose, non ti restituirò il tuo... portafortuna.»

Sinclair rise. «Puoi tenerla, se vuoi. Spero che anche a te porti buone cose, anche se dubito che un oggetto rubato possa portare fortuna a chi l'ha sottratto indebitamente.»

Elisabetta continuò a fissarlo in modo ostile.

«Ho sete. Beviamo qualcosa.» Sinclair si diresse verso il bar senza neppure aspettare la risposta della ragazza. Ordinò un whisky e andò verso un tavolino. Elisabetta fu costretta a seguirlo e a sedersi con lui che, non appena ebbe il liquore tra le mani, iniziò a parlare.

«Ho conosciuto Julian più o meno un anno fa, in un bar di Los Angeles. Credo che fossimo sotto le feste di Natale, se ricordo bene.» Elisabetta non lo interruppe quando Sinclair pronunciò quel nome.

«Mi ha letteralmente rimorchiato.»

«Che intendi?» chiese Elisabetta aggrottando la fronte.

«Hai capito perfettamente» le rispose Sinclair, inarcando il sopracciglio.

Elisabetta lo guardò fisso negli occhi. Lui sostenne il suo sguardo.

«Ti prego, continua» gli disse incoraggiandolo, in una muta promessa di non interromperlo più.

«Mi disse che aveva visto tutti i miei film e che sperava di vedermi presto anche in teatro, dove pensava che dessi il meglio di me. Mi chiese se potessimo scattarci una foto, poi mi ringraziò e volle offrirmi da bere. Il secondo giro lo offrii io e così via per quasi tutta la serata. Mi raccontò che era uno scrittore, come lo era stata sua madre, un'italiana che se n'era andata di casa quando Julian aveva quindici anni. Da lei, oltre che il talento artistico, aveva ereditato gli occhi. Verdi e ardenti.»

Elisabetta pensò che quell'ultimo era un giusto aggettivo. Chris o Julian, comunque si chiamasse, aveva occhi magnetici e infuocati. Il particolare che sua madre fosse italiana chiariva la conoscenza della lingua. Alcune pedine stavano andando al loro posto.

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