PARTE PRIMA - L'ARRIVO A ROMA Atto 1 - L'attore attempato

96 12 67
                                    

L'uomo alto scese dall'aereo. I capelli ondeggiavano leggeri sul collo mentre si abbottonava il cappotto. Il volo per Roma Fiumicino era arrivato in perfetto orario e lui aveva urgenza di raggiungere la destinazione prima possibile. Alzò anche il bavero, stringendone i lembi e mise a fuoco il pulmino che l'avrebbe portato in aerostazione. Incassando la testa tra le spalle, sperò di non essere assalito dai soliti invadenti maleducati.

Giunto a destinazione, una ragazza in tailleur rosso su tacchi vertiginosi attirò la sua attenzione sventolando una mano e profondendosi in un sorriso sbiancato da poco. L'uomo alto strinse gli occhi e, con una smorfia, smontò l'entusiasta in rosso. Non voleva dare nell'occhio. Già in aereo si era sottoposto all'insopportabile rito degli autografi, come gli succedeva ogni volta che metteva piede fuori di casa. Attraversò l'aerostazione in fretta, evitando accuratamente di guardarsi intorno, il miglior sistema per eludere gli importuni in cerca di dediche e selfie.

In macchina, mentre l'autista consultava il navigatore sulla strada migliore da seguire, la ragazza in rosso sparò alle sue annoiate orecchie una salva di «felicissima di». Lui, infreddolito, continuava a stringersi il cappotto addosso e a chiudersi il bavero tra pollice e indice. Non aveva mai avuto tanto freddo in vita sua. Forse era l'adrenalina. Da qualche parte aveva letto che lo stress dava freddo e che il freddo a sua volta scatenava l'adrenalina. In più c'era l'inclinazione al lamento e al pianto che, sempre come aveva letto, accompagnava l'esaurimento nervoso. Il suo analista era stato meno perentorio; diceva che faceva tutto parte di un ciclo: rilassamento, stato di allarme, tensione e reazione alla situazione di allarme. La prima fase, quella del rilassamento, gli sembrava lontana come l'adolescenza.

Erano anni che viveva lo stato di allarme e ora, verosimilmente, aveva sfondato la vetta del ciclo: esaurimento nervoso. O vecchiaia, più probabile. Era così che si sentiva: stanco, vecchio e con le ossa infreddolite, anche se la ragazza dal tailleur in rosso aveva fatto in modo che la gonna aderente scivolasse almeno fino a metà bicipite femorale, come lo chiamava il suo fisioterapista mentre lo massacrava fino a qualche settimana prima con quell'impossibile riabilitazione. Certo che guardando il suo di bicipite femorale non gli sarebbe neppure venuto in mente di paragonarlo a quella curva tonica e perfetta che non aveva potuto non notare. Almeno da quando erano saliti sul sedile posteriore della Mercedes Classe S, bella sì ma per i suoi gusti inadatta alla circostanza. Quello confortato doveva essere lui, non l'autista, e la macchina gli sembrava davvero poco comoda sui sedili posteriori. Forse anche quello era un sintomo dell'esaurimento, la claustrofobia.

Che l'autista fosse confortato più di lui lo dimostrava lo specchietto retrovisore inclinato dalla parte della ragazza in rosso. Non poteva arrivare alle cosce scoperte, altrimenti l'avrebbero sgamato, ma lanciava rapide occhiate a quanto stava accadendo dietro. Nulla, naturalmente, ma la voce sensuale della donna, il suo agitarsi sul sedile come se fosse rivestito di chiodi, il suo linguaggio da esperta addetta alla persona famosa da assecondare in tutto - o quella era almeno la cortese illusione da dare - doveva aver fornito al guidatore la sensazione che di lì a poco avrebbe avuto qualcosa da ricordare una volta a casa da una moglie meno avvenente.

L'uomo alto affondò nel sedile, cercando di stringersi in quel cappotto che gli sembrava avesse le uniche braccia desiderabili al momento. La coscia della donna toccò la sua, anche se con buona probabilità era stato un contatto involontario, dovuto a una curva presa a velocità sostenuta.

Attirare giovani ragazze sembrava essere un classico, ultimamente, e questo lo faceva sentire ancora più vecchio. Il suo agente si preoccupava di ricordargli quante fan correvano alle prime dei suoi film e quante lettere sdolcinate giacevano in attesa di una risposta personale, alcune con proposte più che esplicite. Ma erano tutte in attesa di Lazlo Corallo, l'avvenente, cinico, solitario e infame investigatore del cazzo, mica dell'attore che si celava sotto quelle spoglie ricoperte di stucco. Per togliersi i chili di fondotinta, correttore e passata di cipria finale, l'ultima volta aveva impiegato trentacinque minuti. Già, perché doveva anche togliersi la parrucca brizzolata che faceva tanto quarantenne precocemente imbiancato. Lui, il sessantacinquenne tardivamente rincoglionito - perché tutto gli si poteva dire tranne non essere stato un gran pezzo di fico fino a qualche anno prima - di capelli scuri serbava un ricordo. Di finzione cinematografica, per giunta. Era sempre stato chiaro di capelli e non aveva mai capito perché in tutti i suoi film lo avessero sempre voluto bruno.

Anteprima StampaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora