27. NIK

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Qual è il confine oltre il quale una bugia 
non è più considerata a fin di bene? 

6 aprile 

Nella mia testa c’è un uragano e i polmoni mi chiedono aria. O meglio, una sigaretta. Durante il viaggio in treno sono riuscito a fumarne solo metà nel bagno, e pure con l’ansia che scattasse un qualche allarme antifumo, antifuoco, anti-cosa-gli-pare.

Quando arriviamo alla stazione di Bakersfield l’unica cosa a cui penso è fumare. Fumare perché senza di lei mi sembra di respirare plastica bruciata anziché aria.

Mi manca l’aria.
Mi manca lei.
Mi manca perché l’unica certezza che ho è che non so quando tornerò. Questo posto è una fottuta trappola. Le strade labirinti e i marciapiedi sabbie mobili.

«Cap». Tutti i miei amici mi chiamano così. Ma oggi l’unico amico che ho è Dan. Alzo gli occhi su di lui. È in piedi davanti a me, il borsone sulle spalle.

Mi fa cenno con la testa di scendere.

Lo so. Dobbiamo scendere.

«Dammi un secondo»

«Amico, il capotreno non ti dà secondi, se non scendiamo ci ritroveremo a Los Angeles»

Osservo la stazione. Sono stato qui solo due volte, la prima perché mi ero messo in testa che volevo farmi di coca. E per fortuna mi hanno trovato prima le guardie. La seconda volta quando la moglie del signor Heaney mi aveva messo su un treno e spedito a San Francisco. Da quel giorno non ho più messo piede a Bakersfield. Non ho più avuto a che fare con questo inferno, né lui con me.
Fino a un mese fa, quando, dopo essermi convinto ad accettare la proposta della squadra locale, ho scoperto che non c’era nessuno scout, che quello che doveva essere un invito del Bakersfield Football Club era in realtà una trovata di Jacqueline. 

Jacqueline…

Sarà una donna ormai. Non che non lo fosse all’epoca. È sempre stata la più cazzuta di tutti noi. L’unica che ha tenuto sulle spalle il suo dolore per tutti. La stessa che di notte piangeva nel letto di Heaney con le sue viscide mani addosso.

Eravamo solo ragazzi. 

No, non è vero. Eravamo già uomini e donne a dieci anni. Perché era quella l’età in cui i bambini all’istituto passavano sotto la tutela di Heaney. Sua moglie era più clemente, ai bambini non era fatto alcun male. Non godevamo di privilegi, questo no, ma almeno nessun ragazzo veniva picchiato e nessuna ragazza veniva molestata. Heaney lavorava così. Voleva una ragazza per ogni annata. Come il vino, le collezionava finché a diciotto anni non venivano spedite in giro per gli States a compiere lavori sporchi per lui, oppure a marcire in chissà quale cittadina di provincia, con mezzo soldo in tasca.

Jacqueline si era offerta. E così per il suo anno, per il nostro anno di nascita, non c’erano state le prove generali. Nessuna ragazza era passata dalla camera di Heaney, solo Jacqueline. Ed era una bella ragazza, a dieci anni aveva già qualche forma, era brillante, scaltra, e per questo Heaney la adorava.

Jacqueline le aveva salvate tutte. Aveva portato sulla sua pelle il fardello della violenza. E non si era mai lamentata. Qualche volta si intrufolava nel mio letto, dopo essere stata nel suo, e piangeva. Piangeva fino ad addormentarsi.

Io le accarezzavo i capelli scompigliati, mi assicuravo che non facesse incubi. Non capivo bene cosa succedesse con lei, pensavo la picchiasse come faceva con me, ma lei non era mai cattiva, non disobbediva mai, quindi non lo faceva arrabbiare. Non capivo perché.

Ho iniziato a capire verso i quattordici anni che non c’era un perché, che era solo malato. Era solo un mostro.

E così le botte sono aumentate, perché io gli strappavo dalle grinfie la sua niña, la chiamava così. Ne prendevo tante. Ma almeno a lei non torceva un capello, perché io lo avevo minacciato di dire tutto a sua moglie.

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