MANASA

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Figure nere gli si stagliavano davanti. Lo fissavano con la spada macchiata di sangue e il capo coperto di cenere, sulla fronte il segno rosso di Shiva. Sterminati fino all'ultimo, sconfitti nella guerra e cancellati dalla storia. Ma erano ancora lì nella sua testa, l'espressione sfrontata, fiera e vittoriosa.

Aveva sentito raccontare molto leggende sui naga sadhu prima di combattere. Non temeva le leggende, erano uomini mortali che si era trovato davanti.

Erano conosciuti come asceti, uomini di Shiva che si portavano appresso le armi. Non avevano esitato davanti alla morte, neanche quando la nagini venne deposta e la resa ormai segnata. Li rivide ergersi in piedi impugnando il khanda, una lama d'acciaio massiccia con cui falciavano la testa ai soldati. L'aveva sentita recidere il capo, tagliando di netto l'osso; aveva visto la testa di un haku rotolare a terra, fermandosi ai suoi piedi.

Si era battuto contro i guerrieri naga, aveva sudato freddo davanti alla loro furia e alla loro potenza, lottando fin quando le gambe lo ressero, quando né la tecnica né l'esperienza bastavano a sottrarsi. Si era battuto guardando in faccia la morte sicuro che fosse la fine. Che sarebbe caduto quel giorno insieme a loro per portare gloria all'Impero.

Quella mattina il tempio era stato dissacrato: il pavimento ricoperto di corpi, il marmo bianco divenuto viscido e scuro. Trascinato via da Hiroto mentre era prossimo a dissanguarsi, aveva trascorso giorni di tormento nella paura di uscirne menomato. Un soldato storpio non era un soldato e non erano poche le ferite che aveva riportato. Nondimeno, un braccio inerme e la gamba trapassata da parte a parte con la spada. Con la clemenza dei suoi antenati, il braccio era guarito e la lama aveva evitato l'osso.

Il Mandir era un relitto del passato. I riti e le celebrazioni erano state sospese, i sacerdoti sterminati insieme agli asceti. Il tempio era maledetto e per sempre si sarebbe trascinato l'avvisaglia dietro: sfidare il governo avrebbe significato un altro eccidio non meno sanguinario del primo.

Si chiedeva se Kinari avesse mentito. Se diceva la verità il tempio di Manasa non era un riferimento dato a sproposito. La naga era un'incauta e disperata, ma non era una stupida e priva di risorse. Poteva davvero aver conosciuto l'amante del naga sadhu sul luogo in cui commemoravano entrambe un passato glorioso.

Colpita dal sole, la giungla pareva una fortezza lussureggiante e invalicabile. Si estendeva alle spalle del tempio cingendolo da una parte, mentre dall'altra i giardini lasciati all'incuria accompagnavano il passo sterrato coperto di polvere e detriti. La strada si delineava fra stagni infestati da piante acquatiche e alghe. A loro tempo le piscine naturali erano state chiamate occhi limpidi di Manasa, quando da lontano sembravano brillare di luce propria, mentre all'approssimarsene rendevano il riflesso ceruleo che li faceva accostare al divino. Niente di tutta quella fascinazione restava e soltanto barlumi di immagini ricordavano ad Amane com'era stato il tempio allora.

Gli alberi di magnolia e le orchidee evocavano una bellezza andata, sciupata come i frutti maturi che giacevano a terra tra i fichi e i manghi. Non lontano da lì, fra gli eucalipti, grandi magioni si ergevano abbandonate, un tempo abitate da ministri e sacerdoti abbienti. Insieme al Mandir la mano degli haku aveva toccato anche loro lasciandosi dietro quelle rovine.

Tirando le redini Amane osservò un gruppo di naga in preghiera, mentre questi camminavano attorno al Mandir con in mano corone di fiori. Una naga che avanzava discosta, con il velo che dal capo le scendeva fin sulle spalle, raggiunse l'ingresso. Si udì una campanella risuonare nell'aria e della musica diffondersi all'esterno. Dopo un breve momento seguì di nuovo il silenzio, fatto di un cinguettio distante e il frullare d'ali di un martin pescatore che sorvolava lo stagno. Una coppia di rondini svolazzava attorno, in una brezza calda che faceva frusciare i giunchi e la gramigna. Sulla riva opposta un airone sbatté un paio di volte le ali, tornando a scrutare fra le ninfee il fondo melmoso dell'acquitrino.

Smontato da cavallo, Amane proseguì a piedi fermandosi di fronte al tempio, una costruzione massiccia fatta per imporsi e sovrastare. La torre centrale si stagliava nel cielo dando al tempio l'aspetto di una montagna, resa slanciata dalle guglie aguzze come lance. L'immagine che ne venne era di un deva che da un lato dava riparo e dall'altro intimoriva con il suo potere, addolcito appena dai fiori che erano stati lasciati sulle scale.

Manasa non è caduto in disgrazia dopotutto.

Aveva creduto di trovare un sostenitore delle tradizioni: un sacerdote che non voleva lasciarsi il passato alle spalle o qualche pellegrino memore della disfatta. Ma sapere Manasa ancora attivo e ben vivo lo riempì di un'ostilità bruciante.

I naga l'avrebbero riconosciuto là dentro non appena fosse entrato. L'uniforme nera della milizia era un problema trascurabile. La configurazione del viso, gli occhi sottili e a mandorla lo tradivano. La pelle stessa, che non era bianca, era pur sempre chiara rispetto ai naga che spesso presentavano una tonalità olivastra. E distraendosi appena si chiese come due razze, che non erano neppure geograficamente tanto distanti, fossero finite tanto lontane.

Dunque gestire una folla sarebbe stato diverso dall'affrontare un ribelle di sorta che aveva deciso di appellarsi ai morti. Scovare una donna in mezzo a loro, che fosse l'amante del naga sadhu, o scovare il naga sadhu stesso, non sarebbe stato facile invero.

Lasciò il cavallo libero di pascolare. La bestia gli rivolse appena una fugace occhiata prima di allontanarsi scuotendo la coda.

Avendo più tempo e con la malattia andata avrebbe messo a ferro e fuoco il tempio. Il massacro che c'era stato doveva aver posto la fine ultima ai loro rituali. Aveva visto morire un centinaio di naga, ma altrettanti haku erano caduti, per trascinare i naga sadhu con sé nella morte.

Si rese conto di star temporeggiando. Inspirando a fondo Amane iniziò a risalire la gradinata. Un vento caldo gli soffiava incontro accompagnandolo fino al portico all'ingresso, che con i suoi pilastri in basalto creava una sala esterna ventilata. Minuziose figure a rilievo ne decoravano la base, mostrando elefanti in lotta tra di loro, uccelli, scimmie e fra di essi serpenti, che comparivano di frequente sulla scena.

I rilievi accanto alla porta ritraevano immagini di un altro tipo. Fanciulle impegnate nel canto e nel ballo, per metà donne, per metà serpenti. La loro coda si attorcigliava attorno agli alberi spogli. Nude e sensuali richiamavano l'amplesso in maniera volgare.

Poggiò le mani sulla porta con intagli di figure mitologiche e rifiniture dorate, spingendo sul legno per far schiudere le ante. Nella memoria, vivide immagini gli mostrarono altre scene del tempio la prima volta che vi era entrato passando dalla porta sbarrata, da cui sortivano le stesse preghiere e canti.

La musica si diffuse di nuovo all'esterno, quando avvertì una fitta profonda perforargli la testa. Amane si portò le mani alle tempie, premendo per soffocare il dolore che per quanto acuto scemò rapidamente, lasciandolo stordito e con un radicato fastidio. Sentì il viso e il collo bagnati e in bocca sapore ferroso. Si guardò le mani ora macchiate di sangue.

Fremette. Lentamente diede le spalle al Mandir mentre un brivido freddo gli scendeva lungo la schiena. Dietro di lui le porte continuarono ad aprirsi. Delle voci nasali ne uscivano, chiamandolo in tono lacrimoso.

SEISHI - Il teatro delle ombre umane Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora