La guerra è naturale e inevitabile, una lotta per sopravvivere e prosperare, a scapito di popoli deboli e asserviti.
Nonostante la vittoria, per volere dell'Imperatore i falchi sono stati esiliati a Patala, un territorio maledetto dalla nagini che h...
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Quando raggiunse Kinari, la vide accorrere dalla figlia. Tra lacrime e singhiozzi Priya le gridava che suo figlio non c'era più, che le era stato portato via. Kinari diventò rossa, scossa dal tremito in tutto il corpo. Si poggiò al tavolo sul punto di avere un mancamento.
«Luridi figli di puttana, che cosa gli avete fatto?» inveì contro Itachi e Sato che restavano a guardia dell'ingresso, in attesa di ordini. Poggiato alla porta, Itachi osservava Priya con uno sguardo profondo, incapace di toglierle gli occhi di dosso.
Vedendo arrivare Amane, la donna gli si gettò ai piedi, pregandolo in ginocchio in lingua naga. L'haku indietreggiò appena lei tentò di sfiorarlo; la mano nel frattempo corse istintiva alle armi.
«Non toccarla, asura!» esclamò Kinari. Si era sollevata con una nuova furia nello sguardo. Maledicendoli tutti a bassa voce portò la mano al di sopra della candela. Stringeva nel pugno una pietra nera come carbone che mise in bella mostra di fronte ad Amane. «La riconosci, asura?»
Amane la osservò senza dire una parola.
«Se prende fuoco, per noi sarà finita!» li avvertì Kinari.
«Sergente, vuole che le tagli la mano? Potrebbe farci saltare tutti in aria per sbaglio.» Sato era tutt'altro che spaventato dall'idea. Piegò il collo da un lato e poi dall'altro camminando lentamente in avanti.
«Non correre, Sato, è solo un pezzo di carbone.»
«Vuoi rischiare, asura?»
Priya si rivolse svelta alla madre. Le disse poche brevi parole dopodiché si lanciò contro l'haku credendo di trovarlo impreparato. Interdetto dallo sguardo selvaggio che aveva negli occhi, Amane la colpì allo stomaco e con una gomitata assestata alla schiena la spedì a terra. La donna rimase stesa. Si muoveva appena in agonia, gli occhi rossi e disperati.
Kinari emise un grido di dolore, ma non fu lesta a reagire. Avvicinandosi da dietro, Itachi la bloccò recuperando la pietra. La lanciò a Sato che la osservò con scarso interesse, passandola poi al sergente. Amane la rigirò fra le dita, chiedendosi se fosse vera.
Fra gemiti, singhiozzi e urla di Kinari, la ragazzina timida che si era rifugiata in un angolo, ne approfittò per nascondersi in cucina. Sato rivolse un'occhiata ad Amane. Avuto un cenno di assenso, a passo sicuro si mosse in quella direzione.
«Mahika, scappa!» le gridò la madre. Si stava dibattendo come un animale selvaggio per liberarsi dalla presa del suo aguzzino.
Amane guardò quello spettacolo pietoso. Se Kinari non collaborava o ne restava uccisa, tutti i suoi sforzi sarebbero stati vani. Se a morire fosse stata sua figlia, sarebbe finita per sabotare la sua ricerca? Cercando di prendere una decisione, vide Mahika riemergere dalla cucina e venire incontro a Sato con un coltello in mano.
Si rese conto che se lo avesse attaccato, Sato avrebbe ucciso la ragazza senza neppure pensarci.
«Vattene, sciocca!»
Accompagnato dalle grida stridule di Kinari, Amane osservò Mahika. Era sgraziata nell'aspetto. Il viso chiaro e tondo ricordava il volto di Kinari, ma non aveva la sua stessa espressività o prestanza. Gli occhi grandi e scuri non erano allineati e sembravano puntare in direzioni diverse, mentre il suo sguardo vagava come se non avesse annoverato la loro presenza.
«Attaccami, ragazzina, aggredisci la milizia. Difendi la tua mammina,» la provocò Sato.
Amane alzò la mano per fermarlo, quando il coltello atterrò ai suoi piedi cogliendolo di sorpresa. Scese un lungo silenzio in cui perfino Kinari tacque, presa alla sprovvista da quell'atto così arrendevole della figlia.
Mahika aveva gettato l'arma a terra ed era scesa in ginocchio di fronte all'haku, prostrandosi come se fosse dinanzi all'Imperatore. «Haku, signore, invoco la tua misericordia e chiedo pietà per la mia famiglia.»
Amane ne era rimasto impressionato. Il forte accento e la pronuncia imprecisa di Mahika lo indispettivano, eppure non poteva ignorare il suo significato. Doveva riconoscerne i meriti. Esisteva una tradizione fra gli haku sconfitti in battaglia, che gettavano l'arma e si arrendevano al nemico. In cambio chiedevano di risparmiare i civili o i feriti. Era un atto vile colpire a morte un avversario sconfitto, quando questi aveva combattuto con abilità e coraggio. Avuta salva la vita, il guerriero si trafiggeva con la propria spada, per ripagare il suo debito nel sangue.
«Che vuole fare, sergente?» gli si rivolse Itachi spezzando il silenzio. C'era una sorta di imbarazzo nella sua voce che andava a sfumare pian piano.
Era pur vero che tale diritto era riservato soltanto agli haku.
«Accetto la resa,» le rispose. La guardò con attenzione, eppure Mahika non sembrava capirlo. «Riprenditi la madre e la sorella. Ricorda a Kinari che ha tre giorni per guidarmi alla sua salvatrice, o il ragazzino finirà in pasto ai cani.»
Detto ciò, gettò un'occhiata a Kinari per verificare che avesse capito. Itachi a sua volta la lasciò andare. E in un attimo lei si precipitò dalla figlia ferita, stesa a terra fra bassi singhiozzi, chiamandola, accarezzandola, cullandola fra le braccia.
I falchi se ne andarono lasciandosi dietro quella famiglia sventurata, i cui gemiti aleggiavano nella sera, fra i versi delle rane e il frinire dei grilli. Amane guardò la pietra che aveva in mano: un miracolo tecnologico del loro tempo. I naga avevano usato armi come quella per dar fuoco alle loro navi. Durante la guerra erano riuscite a rallentare lo sbarco nemico e poi la sua avanzata, causando migliaia di morti e decine di migliaia fra feriti.
Era stato su una di quelle navi. Combinati insieme, il fuoco e l'acqua erano fra le bestie più terribili che un uomo avrebbe mai potuto affrontare.