IL TEATRO DELLA VITA UMANA

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Il sole ardeva offuscando la vista. Le ombre intermittenti che scorrevano davanti consentivano di acuire lo sguardo e scrutare in lontananza fra i campi, infestati dalla gramigna e dal farinaccio. Qualche boschetto si ergeva lungo la strada, alternandosi ai pascoli e ai fossati.

Il cavallo galoppava insieme al seguito. I falchi neri avanzavano spediti, lanciandosi in picchiata sul tempio di Manasa fra i giardini inselvatichiti e i sentieri erosi.

Amane varcò da solo la soglia del tempio, venendo accolto da una musica vivace e una danza vibrante, eseguita da giovani ragazze che ballavano scalze. Le gonne lunghe si sollevavano come se fossero ali, mentre loro volavano per la navata, cantando con allegria. Gli parvero degli uccelli esotici variopinti, intrappolati nei sari verdi e dorati.

La naga volteggiava fra di esse. I suoi movimenti, leggeri e sinuosi, evidenziavano la figura slanciata. Le curve morbide dei fianchi e del ventre nudo accennavano a una sensualità ammaliante.

Trascorsero diversi minuti prima che Mira lo scorgesse nel tempio, arrestando la danza con un riso che rapidamente sbiadiva. Venendogli incontro si scostò i capelli dal viso legati in una treccia scomposta. Alle sue spalle volti giovani la seguivano in allarme guardando ora lei ora l'haku.

«Sai perché sono venuto?»

«Non qui.»

Con un passo morbido lo guidò verso la cella interna del tempio, di fronte all'altare cosparso di crisantemi e dolci.

«Dov'è il naga sadhu?» Le chiese una volta che ebbero raggiunto il sancta sanctorum. Mira l'aveva lasciato entrare chiudendosi alle spalle la porta. Erano soli. Amane la osservò guardingo mentre posava la mano sul fianco, accanto al fodero della spada.

Mira scosse il capo, gli occhi limpidi che lo guardavano con pazienza. «Non porto né armi né veleni. Soltanto una preghiera.»

Amane abbassò la mano. «Io non ho dei da pregare,» proferì con una smorfia, a voce bassa e circospetta.

«La mia preghiera è per te. E per Patala.»

Amane rise sorpreso. «Una preghiera per me? Stai delirando, donna.»

Mira sollevò la mano e con quella afferrò la sua. Amane non si sottrasse, osservando la linea morbida delle sue spalle e del viso, sciupato da profonde cicatrici.

«La prova che cercavi.» Gli lasciò in mano una fiala di vetro trasparente grande quanto un pollice, con dentro un liquido denso. «Una dose per alleviare i sintomi.»

«Lei dov'è?»

«Non vuoi sentire della mia preghiera?»

Amane scosse il capo ridendo, la fiala stretta nel pugno. Ma poi, osservando la sua espressione irremovibile, le fece segno di andare avanti.

  «Ti scongiuro per Patala e per il tuo Impero, non prendere accordi con Asha. Qualsiasi cosa ti abbia promesso, qualsiasi cosa pensi di ottenere, guarda la realtà in faccia e rinuncia. Non è la fine, dimentica quello che c'è stato e dimentica lei...»

«Devi avere un debole per la milizia se continui a volermi proteggere. O vuoi proteggere Kinari invece? Qualcuno mi ha portato in questo tempio e ho un unico nome in mente, Mira. Chi altri avrebbe potuto escogitare un piano così fine, usare il nome dei naga sadhu per attirarmi qui e manipolarmi? Perché, mi chiedo. Che cosa volevi ottenere?» Le si avvicinò sfiorandole il mento. «Volevi tradirla per Kinari? O c'è dell'altro? Kinari è una donna ricca, è lei che tiene in piedi Manasa e lo finanzia tramite i proventi che vengono dalla vendita dell'oppio e dalle case di piacere?»

Mira indietreggiò senza distogliere lo sguardo, sulla fronte le si era formata una ruga profonda, un solco fra gli occhi che la faceva sembrare così terrena, così umana. Cercò di sorridere perfino nonostante la voce spezzata. «Averti chiamato qui è stato un mio errore. Avevo pensato che si potesse discutere con la milizia. Ma chi mette in mezzo i bambini, per un capriccio o per l'ambizione, non conosce limiti e non conoscerà la pace. E dimmi, uno così se la merita davvero, la pace?»

Il sorriso sardonico di Amane gli morì sulle labbra. «Vivi bene,» le augurò in maniera quanto mai bizzarra. Si voltò con un senso di fastidio che gli cresceva dentro. Eppure lo ignorò, abbandonando Mira al suo destino.

Quando uscì dal tempio, accecato dalla luce brillante del sole, non stava pensando ai naga sadhu o alla milizia. Pensava a Mira e al flettersi del suo corpo, ai movimenti aggraziati che la rendevano quasi divina. Ma il suo viso gli ripiombava davanti, segnato dalle ustioni che si sarebbe tenuta per sempre, e dalle sue parole.

La vista gli si conformò rapidamente mostrandogli la sua squadra: dieci haku erano sotto al suo comando, metà dei quali avrebbe affidato a Minato. Si scambiarono un cenno d'assenso prima di procedere. 

«Le complici del naga sadhu sono là dentro,» spiegò. A sostegno di quanto diceva mostrò loro la pietra incendiaria. «L'hanno nascosto e protetto fino a oggi, rendendosi responsabili dei suoi crimini.»

Quello che avrebbero patito, una volta messo piede in prigione, le avrebbe spogliato di qualsiasi dignità e aspirazione. Era il prezzo che chiunque avrebbe pagato per schierarsi dalla parte dei naga sadhu e andare contro gli haku. La servitù imposta sarebbe stata una clemenza semmai un giorno ne fossero uscite, diventando serve di nome e schiave di fatto. Il suicidio di chi si macchiava di complotto e tradimento veniva punito con la decapitazione dei parenti prossimi; la fuga con la tortura e l'esecuzione pubblica.

«Ci sono delle giovani ragazze nel tempio di Manasa, che per decreto doveva restare abbandonato. La punizione, tenente, suggerisco che sia esemplare.»

Minato sorrise e rispose con un cenno.

«Sato, Itachi, Daichi... Kazuya!» Li chiamò, mentre Kazuya fece per scendere da cavallo e seguire Minato. «Con me!»

Vivi bene, si ripeté. Hai contribuito a decimare la nostra razza.

Con un balzo Amane risalì a cavallo e, strette le redini, si volse in direzione della foresta. Diede le spalle alla milizia che infrangeva l'ospitalità del tempio penetrando l'ingresso, senza rendere conto agli dei in nome dei quali era stato eretto.

Guidò la squadra attraverso la giungla, seguendo il sentiero di tracce incise nella corteccia. Avanzarono in silenzio, circondati dalla vegetazione che li sovrastava e opprimeva, fino a raggiungere la radura antecedente l'abitazione. Da allora in avanti, qualsiasi cosa gli fosse successa, i suoi uomini si sarebbero fatti un nome con l'arresto e l'uccisione del naga sadhu.

Disponendo gli haku all'esterno, in maniera tale che circondassero l'edificio se fossero intervenuti gli atavika, Amane fu il solo a entrare nella sua dimora. Fremeva dall'idea di fare a pezzi la naga lui stesso, e appena la notizia si fosse sparsa non sarebbe stato il solo. Che fosse una donna il naga sadhu avrebbe convinto pochi haku, ma non avrebbe frenato la loro condanna. Che fosse un naga sadhu o la sua puttana, la fine che avrebbe fatto non sarebbe stata diversa.


SEISHI - Il teatro delle ombre umane Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora