Epilogo - Dieci anni dopo
«Sabrina, mi trasferisco a Parigi con i miei».
Se lo ricordava bene, quel giorno.
Gabriele le aveva dato la notizia mentre uscivano dal cinema, un bicchiere di Coca Cola mezzo vuoto in una mano mentre l'altra era impegnata a stringere quella della ragazza.
Lei aveva resistito all'impulso di mollargli un ceffone lì, sul marciapiede.
L'aveva fissato e aveva semplicemente farfugliato un «cosa?».
«Mia sorella ha partorito, e non ce la fa da sola a crescere un bambino. I miei vogliono starle vicino».
Stavano insieme da un anno e mezzo, e le cose tra loro andavano a gonfie vele. L'università li univa ulteriormente, dato che spesso si trovavano a casa di lei per studiare.
Tutto era così assolutamente perfetto, così incredibilmente meraviglioso. Sabrina pensò che avrebbe dovuto aspettarsi che qualcosa sarebbe andato storto.
Eppure, dopo due mesi passati a fare avanti e indietro da Parigi solo per vederlo, i suoi genitori – gli stessi che avrebbero voluto evirare Gabriele Tufi per averla messa incinta a diciotto anni – le proposero di farlo vivere da loro per un po'. Detestavano vedere la figlia in quello stato lacrimoso, sempre triste e che non faceva altro che passare le serate su Skype per parlare con il suo ragazzo.
La ragazza tornò al presente, riportata alla realtà dal bruno che la chiamava a gran voce.
«Sabri, come sta andando là dietro? Ti stai distraendo?»
«Sì» sbuffò lei a denti stretti.
«A cosa stai pensando?»
«A quando i miei ti hanno chiesto di trasferirti da noi».
Mentre stringeva i pugni per il dolore lo vide sorridere nello specchietto retrovisore.
Una contrazione particolarmente forte la fece gemere, e si costrinse a trovare un altro ricordo.
La laurea.
Ce l'aveva fatta, era riuscita finalmente a laurearsi in design; i suoi genitori erano così fieri di lei. E Gabriele. Oh, Gabriele. Durante tutta la cerimonia l'aveva fissata radioso, meravigliato, euforico. Si era sentita così piena di soddisfazione e di felicità che dovette forzarsi per rispondere al rettore. Fosse stato per lei, sarebbe balzata giù dal palco e avrebbe baciato Gabri con forza.
«Come va?»
«Meglio, se non mi interrompessi di continuo» frecciò Sabrina.
Gabriele ridacchiò nervosamente, pigiando sull'acceleratore e strombazzando dietro ad un auto che andava troppo lentamente.
«Manca poco all'ospedale tesoro, tieni duro».
«Ci sto provando» sbuffò lei, trasalendo all'ennesima contrazione.
Il matrimonio.
Non le venne in mente nulla di più intenso su cui focalizzare la sua mente.
Il vestito morbido che l'aveva avvolta; il quell'abbraccio di raso si era sentita così bella che avrebbe voluto rimanere vestita in quel modo per sempre.
Il bruno, che l'aspettava davanti all'altare con un sorriso talmente grande che per un attimo aveva temuto che gli fosse venuta una paralisi ai muscoli del viso.
Aveva pronunciato il voto con voce tremolante; continuava ad annegare negli occhi di lui, troppo belli per poter essere ignorati.Aveva passato tutto il banchetto nuziale a fissarsi la fede al dito, un sorrisino incredulo ad incresparle costantemente la bocca.
Non sembrava neanche lei.
Quando però il moro l'aveva trascinata sulla pista da ballo e tutti avevano sentito gli insulti che gli aveva sibilato contro, si era sentita di nuovo Sabrina. Solo più felice. E sposata.
«Siamo arrivati, Sabri» disse l'uomo, concitato. Spense l'auto e ne uscì, raggiungendo la portiera posteriore.
L'aiutò a scendere e, non appena fu in piedi, le avvolse un braccio attorno alla vita per sostenerla.
«Fa tanto male?» tentò; ci rinunciò immediatamente quando notò lo sguardo minaccioso della moglie.
Entrarono nell'ospedale e subito un'infermiera si precipitò da loro.
Sabrina con una mano si teneva all'uomo, mentre con l'altra accarezzava incessantemente il ventre gonfio.
«Le si sono rotte le acque» spiegò rapidamente Gabriele all'anziana infermiera, che annuì e chiamò due colleghi; quelli apparvero pochi secondi dopo con una barella.
La donna venne fatta stendere e fu trasportata velocemente lungo il corridoio.
Lui la guardò allontanarsi. «Posso andare con lei?»
«Oh, solo un momento, devo richiederle alcuni dati. Lei è il marito, suppongo» indagò la signora.
«Esatto».
«È il primo?»
«Come?»
«Questo è il vostro primo bambino?»
«Sì» mormorò lui. «Ma non è la prima gravidanza».
«Aborto spontaneo?»
«Sì».
«Stia tranquillo. Andrà tutto bene» gli sorrise. «Può fornirmi un documento d'identità, per favore?»
«Certo».
Gabriele prese a frugare nelle tasche interne della giacca di lana grigia.
Annaspando, affondò le mani in ogni anfratto dell'indumento, imprecando a denti stretti.
«C'è qualche problema, signore?»
«Ilportafoglio. L'ho dimenticato a casa per la fretta».
«Oh be', non-»
«Posso fare una telefonata? Non ho neanche il telefono qui, mi scusi».
«Oh, ma sicuro».
L'infermiera lo fece passare oltre il bancone della reception e lo guidò fino ad un telefono appeso al muro.
«Digiti zero e poi componga il numero che deve chiamare».
«Non esiste» commentò schifato Cristian, osservando quello che Nikki teneva in mano.
«Ti prego» lo implorò lei, fissandolo intensamente negli occhi.
«Assolutamente no».
«Ma perché?» protestò la donna, avvicinandosi al fidanzato.
«Perché io odio Titanic. Non ce la faccio a vederlo di nuovo. L'abbiamo visto solo un mese fa!»
«Ma è il mio film preferito» mugugnò lei.
«No» tagliò corto lui, irremovibile.
«Dai...» mormorò lei, avvicinandosi ancheggiando. «Giuro» gli sussurrò a pochi centimetri dall'orecchio, «che se guardi il film con me stasera, stanotte ti farò tante cose carine» miagolò.
Lui sorrise e le accarezzò la guancia con la punta delle dita. Poi l'afferrò per le spalle e l'allontanò delicatamente. «No».
Lei aprì la bocca scocciata ed esalò un respiro secco. «Sei una persona crudele, Cristian Lo Presti».
«Me ne farò una ragione» ridacchiò lui, lasciandola sola in camera da letto e raggiungendo la cucina.
Nikki si sedette sul letto sorridendo, suo malgrado.
Tutti i loro amici avevano preso casa a Milano, anche se Davide e Valentina passavano molto più tempo in giro per il mondo che a casa loro.
La donna si osservò l'anello di fidanzamento ed esalò un sospiro, sorridendo.
Alla fine l'aveva fregata.
Ed era così felice all'idea che l'avrebbe raggiunto immediatamente e avrebbe fatto l'amore con lui sul tavolo della cucina. L'unica cosa che la frenava era che le aveva negato Titanic.
Il suono del telefono la riscosse dai suoi pensieri.
Cristian rispose prima che lei potesse alzarsi dal letto.
Nikki aprì il cassetto del comodino ed estrasse un'agenda verde scuro. L'aprì sul 4 giugno e sospirò di nuovo.
In alto, sulla pagina, lei stessa aveva disegnato due fedi incatenate.
Mancavano ancora più di sette mesi, eppure lei sentiva lo stomaco in subbuglio se pensava che si sarebbe sposata.
Cristian irruppe nella loro camera da letto, paonazzo e agitato come non mai.
«Che succede?» gli chiese allarmata.
«Sabrina... sta partorendo... Gabriele ha lasciato i documenti a casa... passiamo a prenderli e andiamo in ospedale» riuscì a dire nonostante fosse elettrizzato e col fiatone.
Nikki balzò in piedi e lo seguì.
Nell'ingresso ripescò le chiavi di casa di Gabriele e Sabrina e raggiunse Cristian in macchina.
Mentre sfrecciavano lungo la strada, la donna prese il cellulare e selezionò un nome tra i contatti della rubrica, poi sfiorò il tasto 'chiama' sullo schermo.
Francesca stava litigando con il bambino da almeno venti minuti.
«Devi andare a letto, sono le nove!» esclamò adirata per la decima volta.
Il piccolo Matteo fece finta di non sentirla, per la decima volta.
«Matti! Se non spegni quella televisione entro tre secondi, puoi dire addio a Woody!».
Il bambino osservò la madre con gli occhioni chiari sbarrati.
«Ho sentito bene? Qui qualcuno sta minacciando Woody?»
Entrambi si girarono verso la porta della cameretta; Giorgio li fissava divertito, il cappello in mano e la giacca ancora allacciata fin sotto al collo.
«Sì, lo minaccio eccome» rispose Francesca, sfoderando un perfetto tono minaccioso.
Il marito entrò a sua volta nella stanza e si mise davanti a Matteo.
«Hai sentito la mamma?»
Lui annuì, leggermente turbato. «Vuole fare male a Woody» disse contrariato.
«Sì. Lo darà all'uomo nero se non vai subito a dormire. I bambini di cinque anni non dovrebbero essere ancora svegli» disse Giorgio severo.
«Tutti gli altri bambini sono a letto da un pezzo» rincarò la dose la riccia.
«Ma non è ancora finito» sussurrò teneramente Matt indicando il televisore.
Giorgio guardò la moglie con espressione bonaria. «Non possiamo lasciargli finire il cartone?»
Francesca si arrabbiò ancora di più. «Ma insomma Giorgio,io lo educo e tu disfi il mio lavoro!» strillò quasi.
L'uomo le si avvicinò sorridente.
E lei si arrese. Come sempre.
Si senti sgonfiare come un palloncino mentre tutta la rabbia la abbandonava e gli occhi da bambino di suo marito la distraevano.
«Oh, è tutto inutile con voi due» disse la donna spazientita, agitando una mano per aria. «Se tra mezz'ora non hai spento, Woody sarà seriamente nei guai» sibilò diretta al figlio.
Il bimbo prese tra le braccia il pupazzo di Toy Story e lo strinse al petto. «Va bene».
Lei si ritrovò a sorridere. Si avvicinò a Matteo e gli lasciò un bacio sulla fronte. Giorgio fece la stessa cosa; poi la prese per mano e la condusse fuori dalla cameretta, chiudendo la porta alle loro spalle.
«Non ci piace quando fai la mamma severa» mugugnò lui.
«Non piace neanche a me. Ma qualcuno dovrà pur mantenere un minimo di disciplina in questa casa» ridacchiò.
Giorgio appese il giubbotto nell'ingresso e posò guanti, sciarpa e cappello nell'armadio.
«Ho una fame da lupi».
«Ho preparato le lasagne oggi» gli disse lei raggiante.
«Ti amo».
«Per delle lasagne?»
«Oh, per molto altro» le sussurrò contro le labbra prima di baciarla.
«Ah, ecco... cominciavo a preoccuparmi» rise lei tra un bacio e l'altro.
Entrarono in cucina e lei iniziò immediatamente a spadellare.
Mentre Francesca era alle prese con un pezzo di lasagne, Giorgio si lasciò cadere, esausto, su una sedia ed appoggiò i gomiti sul tavolo.
«Com'è andata al lavoro?»
L'uomo accettò il bicchiere d'acqua che la moglie gli stava porgendo.
«Bene, forse riesco a vincere la causa prima del previsto» le sorrise.
«Sul serio?» chiese lei aggiungendo un goccio d'acqua nella padella antiaderente con le lasagne.
«Si, i Pagano hanno ammesso di aver affisso quel cartello illegalmente, e non me lo aspettavo. Quindi ho praticamente finito».
La mora batté le mani soddisfatta, precipitandosi sulle labbra di Giorgio.
«Sei l'avvocato migliore del mondo, Albanese» gli sussurrò sulla bocca.
«Sì, in effetti è vero» rise lui, ricambiando il bacio.
Lei tolse le lasagne dal fuoco, le mise su un piatto e gliele servì al tavolo.
«Hanno un aspetto fantastico».
«Spero siano buone».
«Sai che lo sono. Sei la cuoca migliore del mondo».
«Sì, in effetti è vero» disse lei, scimmiottando il marito.
Lui ridacchiò e prese a mangiare di gusto, interrompendosi di tanto intanto solo per farle dei complimenti e lasciarsi andare a gemiti di pura libidine.
«Com'è andata in ufficio?»
Francesca sbadigliò un «bene» e si sedette al tavolo con lui. «Certo il mio lavoro non è emozionante come il tuo».
«Il mio lavoro è un continuo susseguirsi di gatte da pelare, Chicca» disse lui con voce roca, e lei arrossì all'istante. La chiamava così solo nei momenti intimi. Molto intimi.
«Certo, certo» ridacchiò lei, osservando il piatto dell'uomo. «Hai già finito?» chiese, leggermente scioccata.
«Sì. Dio, potrei morire mangiando le tue lasagne, amore».
Lei gli diede un buffetto sulla nuca mentre sparecchiava.
Aveva appena messo il piatto sporco nel lavandino quando il cellulare squillò sul piano della cucina.
«Ehi, Nikki» rispose allegramente.
Giorgio osservò la moglie mentre quella ascoltava attentamente ciò che le stava dicendo l'amica.
La vide strabuzzare gli occhi.
«Vorrei tanto venire... E credo che anche Gio lo voglia, è la sua migliore amica... Il problema è Matteo» stava dicendo.
Cosa c'entrava Sabrina?
Che le fosse successo qualcosa?
Improvvisamente si scoprì nervoso; ma Francesca non sembrava preoccupata, solo su di giri.
«Credo che faremo così, sì» sospirò la mora. «Ci vediamo dopo» concluse.
Quando posò il telefono, il marito la fissò interrogativo.
«Cos'ha Sabrina?»
Lei lo fissò radiosa. «Sta per partorire».
«Oh, merda!» esclamò animato, balzando in piedi e catapultandosi nel corridoio.
«Nikki mi ha consigliato di portare Matt con noi. Non credo che gli dispiacerà» gli disse la donna mentre entrava in camera del figlio. Ne riemerse poco dopo, il bambino a stringerle la mano, un pollice piantato in bocca e un'espressione contrariata.
«Non era ancora finito il film!» protestò afflitto.
«Papá ti compra il dvd domani» disse frettolosamente Giorgio.
«Sul serio?» esclamò il bambino.
«Ma certo. Andiamo da zia Sabrina adesso».
«Per l'amor del cielo, Davide!» ululò la ragazza fissando il ragazzo.
«Dammi un momento!» farfugliò quello.
«Te ne ho dati fin troppi di momenti» borbottò quella.
«Ci sono» bofonchiò lui, riuscendo finalmente a slacciare la cintura del sedile dell'aereo.
«Sono anni che prendiamo l'aereo e tu fai ancora fatica a slacciare quelle cose?».
Il nero non le rispose, limitandosi a seguirla lungo il corridoio; salutò frettolosamente le hostess che augurarono ad entrambi un buon soggiorno a Milano.
«Perché sei così di fretta?»
Valentina sventolò la mano con sufficienza, continuando a camminare.
«Vale!» la richiamò, ormai correndo per stare al suo passo.
«C'è Harry Potter in televisione stasera» tagliò corto la donna.
Lui si immobilizzò, fissandola. «Scherzi».
Lei si voltò, scocciata. «No che non scherzo. È già iniziato sicuramente, e se ti dai una mossa forse riesco a vedere il secondo tempo».
«Ma hai tutti i dvd!» si lagnò lui, riprendendo tuttavia a camminare.
«Vederli in televisione è tutta un'altra cosa».
Mentre seguiva la ragazza per i meandri di Malpensa, Davide si ricompose, sistemandosi la felpa, e infilandosi la giacca.
Recuperarono i bagagli e raggiunsero di corsa l'uscita.
Vagarono per il parcheggio, cercando di ricordarsi dove avevano parcheggiato l'auto tre settimane prima.
«Lì» disse l'uomo, mettendosi finalmente davanti, un pesante trolley a rallentarlo.
Dopo aver caricato le borse nel baule, entrarono in macchina con il fiatone; Valentina accese immediatamente il cellulare.
«Ti conviene fare la strada più lunga» gli disse inseriva il codice pin. «Sull'altra ci sarà un traffico assurdo».
Lui annuì, d'accordo con lei. Inserì la prima e partì.
«Francesca mi ha chiamata. Anche Giorgio».
L'uomo si irrigidì all'istante. «È successo qualcosa?»
«Non ne ho idea» mormorò lei richiamando immediatamente l'amica.
Francesca rispose dopo quattro squilli. «Ehi! Perché non eri irraggiungibile?»
«Eravamo in aereo».
«Cosa? Aereo? Dove siete adesso?»
«Appena fuori da Malpensa».
«Siete tornati oggi? Ma che giorno è?»
Valentina sentì Giorgio ridere nervosamente in sottofondo.
«Il 22 novembre, tesoro» ridacchiò a sua volta.
«Oh Gesù Cristo, il tempo passa troppo in fretta. Amore, ti rendi conto Matt fa sei anni tra sette mesi?»
«Sì, tesoro, parla dopo con tuo marito» sghignazzò la donna dall'altro capo del telefono. «Perché mi avete chiamata in due? È successo qualcosa?»
«Oh, giusto. Stiamo andando tutti in ospedale-»
«Cos'è successo, in nome di Dio?!» urlò quasi Vale, facendo inchiodare Davide.
Le auto dietro di loro presero a suonare il clacson, e una per poco non li centrò in pieno.
«Dave!» esclamò lei, scioccata, aggrappata al telefono come se fosse l'unica fonte di salvezza.
«Ti sei messa a gridare, mi sono spaventato!».
Si fissarono stralunati per qualche istante, poi scoppiarono entrambi a ridere.
«Pronto? Pronto?» sbraitava intanto Francesca al telefono.
«Scusa tesoro, il mio uomo è un idiota» commentò l'altra asciugandosi gli occhi. «Comunque, riprendi da dove ti ho interrotta, scusa» disse mentre il nero ripartiva tra gli insulti degli altri automobilisti.
«Sabrina sta per partorire, stiamo andando tutti in ospedale. Mi sembrava carino chiamare anche voi, dato che Cristian e Nikki sono già là, e io ho appena sentito Paola-»
«Arriviamo. Dacci una mezz'ora» sorrise Vale, concisa come sempre.
«Perfetto, ci vediamo dopo».
Chiuse la comunicazione e guardò l'uomo al volante.
«Mogavero, abbiamo un cambio di programma».
«Sarebbe?»
«Sabri è in travaglio, andiamo in ospedale. Ci sono tutti».
Lui accolse la notizia con un sorriso smagliante, di quelli che le piacevano tanto.
Decise saggiamente di aspettare il primo semaforo prima di sporgersi oltre il freno a mano e baciarlo con foga.
«Se mai avremo dei figli, voglio farli nascere in Africa. Amo i loro riti» mormorò mentre sfrecciavano per le strade di Milano.
«Stasera provvederò» sussurrò lui con una finta voce suadente.
«No Clau, non fare così, dai... Claudia, per favore... Claudia, fai la brava dai...»
«Serve una mano?»
Paola osservò divertita suo marito mentre cercava di infilare il cappotto alla bambina.
«No, ce la faccio» rispose lui in tono di sfida.
Era un'immagine esilarante vista dall'esterno.
L'auto ferma nel parcheggio dell'ospedale; una donna con in braccio un bambino intorno ai due anni, uno di quei bambini paffutelli, con i riccioli neri ad incorniciargli il faccino con due guanciotte da stritolare. L'uomo invece era immerso per metà nell'auto, il ginocchio appoggiato ad uno dei sedili posteriori, troppo impegnato con una bambina arrabbiata per fare caso alla gente che passando li guardava sorridendo.
«Claudia, ti prego, fai la brava bambina... mettiamo il cappottino così possiamo andare da zia Sabrina, va bene?»
La bambina, quattro anni e un'espressione furba, osservava il padre con fastidio.
«Ma io non voglio scendere» si lamentò con voce impastata.
«Lo so, hai sonno e fa freddo. Ma sta per arrivare un cuginetto-»
«O una cuginetta» lo corresse la moglie dall'esterno.
«Giusto. Non sei curiosa di vedere com'è?»
Claudia ci pensò su per qualche istante. Poi, fissando nuovamente il papà, scosse il capo.
«Lo posso vedere anche domani».
«Ma domani non sarà la stessa cosa» disse il moro.
Dato che la bambina sembrava non voler collaborare, lui assunse un tono implorante: «Se ti metti il cappotto e vieni con papà e la mamma, ti prendo una bella cioccolata calda».
Lo sguardo di Claudia si illuminò. «Con i biccotti?»
«Con i biscotti, certo» sorrise lui.
In un lampo la vestì e la tirò fuori dall'auto che poi chiuse con le chiavi.
«Ce l'hai fatta» ridacchiò Paola, fissandolo.
«So farmi rispettare dai miei figli, cosa credevi?» la sfidò Mattia, non troppo convinto.
Lei scoppiò a ridere definitivamente, sistemandosi meglio il piccolo Luca sulla spalla. Quando però oltrepassarono l'ingresso dell'ospedale, l'allegria l'abbandonò.
Mattia spostò la figlia sull'altro braccio e prese per mano la donna. «Cosa c'è, amore?»
«Pensi che andrà tutto bene?» chiese lei nervosamente. «Insomma, dopo un aborto spontaneo e quattro anni passati a cercare di avere un figlio senza successo... non so, ho paura per Sabrina» confessò.
«Ma certo, vedrai che andrà tutto bene. È una paura immotivata la tua. Il bambino è sano e forte, l'hanno tenuto sotto controllo per tutta la gravidanza».
«Lo so... ma il fatto che stia nascendo prematuro non mi tranquillizza».
«Ma, amore, è in anticipo di soli due giorni. Non è niente, davvero. Non pensare al passato, in nessun contesto. Quello che è successo quando Sabrina ha perso il bambino è storia vecchia, e non si ripeterà. Ti ricordi quanto eri terrorizzata quando sei rimasta incinta di Claudia? Cosa ti ho detto?»
«Mi hai detto un sacco di cose» borbottò Paola mentre si avvicinavano al bancone.
«Non omettere i dettagli importanti delle nostre conversazioni dalla tua mente, Paola. Non puoi dire al tuo inconscio di-»
«Non psicanalizzarmi, Mattia» lo zittì lei. Si rivolse alla signora anziana alla reception.
«Sabrina Lo Presti».
Quella sgranò appena gli occhi. «Oh, santo cielo. Quante persone stanno arrivando per quella donna» ridacchiò. «Secondo piano, sala parto, la numero quindici. Troverete anche i vostri amici, là fuori».
«Perfetto, grazie mille».
Si mossero in fretta verso gli ascensori, e in men che non si dica raggiunsero il corridoio esatto.
Nikki cacciò un piccolo urletto quando li vide arrivare; balzò in piedi, scagliò la sua borsetta in mano al fidanzato e corse loro incontro.
«Ciao splendori!» esclamò, osservando prima i due e poi i bambini.
Claudia tese immediatamente le braccia verso di lei, e Mattia gliela porse.
«Ciao zia Nikki» la salutò, gettandole le braccia al collo.
Luca, più timido, si strinse contro la madre mentre Giorgio avanzava verso di loro, Matt per mano.
«Ce ne avete messo di tempo».
«C'era traffico. E la principessina non trovava Barbie fatata in camera sua» bofonchiò Mattia, mentre l'amico accarezzava una guancia di Luca.
«Si chiama Barbie Ali di Fata» lo corresse la figlia alzando gli occhi al cielo. Nikki ridacchiò e la strinse in un abbraccio.
Gabriele giunse da loro, pallido e lievemente sudato.
«Gabri, mi vuoi spiegare per quale razza di motivo non sei con Sabrina?» lo apostrofò Briga.
Cristian scosse la testa dietro al bruno. «L'ho già insultato io, ma non vuole cambiare idea».
«Ehi, io voglio andare, sto per entrare. Volevo solo assicurarmi che foste arrivati tutti. Aspetto Davide e Valentina e poi entro» mormorò l'interessato poco convinto.
Mattia gli mise un braccio attorno alle spalle, attirandolo a sé e allontanandosi dagli altri.
«Hai paura, vero?» gli chiese sottovoce.
«Me la sto facendo sotto» confessò Gabriele. «Amico, è una cosa disumana. Credi che potremo fare di nuovo sesso, dopo? Sarà com'era prima? Cristo, le passerà una testa dalla v-»
«Gabri, so cosa succede, l'ho visto per ben due volte... e se Dio vuole lo rivedrò tra poco più di sei mesi».
L'amico si bloccò e lo guardò esterrefatto. «Mi stai dicendo che Paola... l'hai messa incinta ancora?»
Il moro annuì ridacchiando. «Mio padre non scherzava a proposito della virilità dei Bellegrandi».
«Cazzo. E sei contento?»
«Ovviamente. E sono contento anche di essere stato accanto a Paola durante le gravidanze e al momento del parto».
L'altro chinò il capo.
«Gabri, non puoi perderti questo momento. Fa paura, anche un po' schifo se hai lo stomaco debole. Ma è qualcosa che non si ripeterà mai più. Un bambino nasce una volta sola, e quello è tuo figlio. Non puoi perdertelo. L'avete già perso una volta».
Quelle parole attraversarono il cervello dell'uomo come un proiettile.
«Hai ragione. Merda, la sto lasciando da sola!» esclamò, le guance che ripresero un po' di colore.
Si districò dalla presa di Mattia e bussò alla porta della sala parto.
Qualche istante dopo un'infermiera sulla cinquantina l'aprì e lo fissò. «Sì, signor Tufi?»
«Mi porti da mia moglie, per favore».
Scomparve nella stanza sotto lo sguardo soddisfatto di tutti i presenti.
Mattia raggiunse sua moglie e i loro amici e si accasciò su una delle sedie in plastica.
«Coraggio tesoro. Vai a giocare con Matt e tua sorella. Su» Paola stava esortando il bambino. Quello si lasciò depositare a terra, lo sguardo un po' insicuro. Mosse un paio di passi incerti verso gli altri due bambini, poi tornò a guardare la madre, in cerca di approvazione.
«Certo. Vai» gli sorrise lei.
Rincuorato, Luca raggiunse in pochi piccoli passi la sorella e l'amico, cercando di capire che gioco stessero facendo con le sedie della sala d'attesa.
«E voi? Quando vi deciderete a farne uno?» buttò lì Giorgio fissando Nikki e Cristian.
Entrambi arrossirono e presero a guardarsi intorno. «Fatti gli affari tuoi» sibilò Cristian. Nonostante l'imbarazzo ed il tono con cui aveva parlato, si notava che stava mascherando un sorriso.
«Ecco» tentò Nikki, «diciamo che siamo un po' in ritardo».
«Che? Cazzate. Avete meno di trent'anni, non siete mica vecchi» borbottò Giorgio.
Ma Francesca fissava Nikki, scioccata. «Tesoro, non credo si riferisse all'età».
L'amica scoppiò a ridere seguita dal fidanzato, mentre tutti gli sguardi si puntarono su di loro.
«Sei incinta?» chiese Paola, dato che nessuno sembrava avere il coraggio di farlo.
«Non lo so. Ho un ritardo di due settimane. Ne stavamo parlando giusto ieri».
«Dovresti fare un test. Se vuoi posso aiutarti» si offrì l'altra. «Ormai sono esperta. L'ultimo risale a tre mesi fa, giorno più, giorno meno».
«Ed era anche positivo» ridacchiò il marito, passando una mano sul ventre della donna.
«Quando pensavate di dircelo?!» strillò Nikki balzando in piedi e raggiungendo la coppia. Si accovacciò e posò una mano sulla pancia di Paola, assumendo immediatamente un'espressione concentrata.
«Non lo sentirai mai scalciare Nik, è troppo presto» rise la donna.
L'altra si rialzò delusa, tornando accanto al futuro marito. «Sapete già se è maschio o femmina?» chiese quello.
«No, non ancora» rispose Mattia soffocando uno sbadiglio.
Era stata una giornata pesante allo studio. Tre appuntamenti nel pomeriggio, due dei quali erano pazienti complicati da affrontare.
«Mia sorella è ancora in ufficio con mio padre?» chiese a Paola.
Lei annuì.
Era quasi ridicolo.
Lui, l'uomo di casa Bellegrandi, dal quale i suoi genitori si aspettavano l'erede dell'agenzia edile di famiglia, aveva scelto di laurearsi in psicologia. Sua sorella Rebecca, contro ogni aspettativa, aveva affiancato il padre ed era presto diventata il capo della Bellegrandi Buildings s.r.l.
Paola era diventata socia due anni dopo aver finito l'università, e i genitori di Mattia non potevano essere più soddisfatti.
«Alleluia» esalò Giorgio quando Davide e Valentina apparvero nel corridoio.
Quelli presero posto ansimando e premendosi la milza. «Abbiamo corso peggio di Bolt» spiegò la donna.
«A proposito di Bolt. Com'è andata in Africa?» si informò Nikki.
«Bolt arriva dalla Jamaica, non dall'Africa» la corresse l'altra. «Comunque è andata abbastanza bene» disse a fatica.
«Lo Zimbabwe è straordinario» venne in suo aiuto il nero. «Paesaggi spettacolari e gente talmente ospitale da commuovere. Ma la situazione sanitaria è drammatica. Abbiamo visto morire un sacco di persone. Anche bambini... soprattutto bambini. Non è una passeggiata».
Davide e Valentina avevano studiato entrambi medicina, diventando medici chirurghi di discreta fama. Spinti dalla voglia di viaggiare e di aiutare le persone meno fortunate, avevano finito per entrare in un'associazione benefica che porta cibo, istruzione, acqua e assistenza medica negli anfratti più poveri del mondo. Spesso stavano lontani da Milano anche per tre o quattro mesi di fila.
«Ecco perché quando torniamo ho bisogno di distrarmi» stava dicendo Valentina. «Non vedo l'ora di allontanarmi dall'aeroporto. Voglio dimenticarmi in fretta delle brutte cose che ho visto...magari facendo shopping, leggendo un libro...»
«Guardando Harry Potter» aggiunse Davide ridacchiando.
«Anche».
«Quello che fate è straordinario» commentò Paola, commossa. «Aiutare le persone è una cosa bellissima».
«Tutti a modo nostro cerchiamo di farlo» mormorò Mattia, che non aveva smesso per un secondo di accarezzarle il ventre con fare protettivo.
«Anche noi avvocati possiamo entrare nella categoria?» sorrise Cristian dando di gomito a Giorgio. Sembravano due ragazzini da quando avevano unito i loro studi, diventando soci.
«Non credo» ridacchiò Nikki.
«E voi scrittori cosa fate per le persone?» la sbeffeggiò l'uomo.
«Le aiutiamo facendole evadere dalla realtà di tutti i giorni. O almeno ci proviamo» disse lei offesa.
«Quando ci riuscite siete incredibili, devo ammetterlo» concesse lui, baciandola fugacemente.
«Non ce la faccio più Gabri» singhiozzò Sabrina.
Il bruno poteva dire la stessa cosa.
Aveva i piedi a pezzi (non si sedeva da almeno tre ore); la schiena a pezzi (era piegato in avanti da tempo immemore per poter stare il più vicino possibile alla moglie); aveva ormai perso la sensibilità della mano che la mora stava stritolando da chissà quanto tempo.
«Sì che ce la fai» le rispose lui, allontanandole i capelli dalla fronte sudata.
Gli spezzava il cuore vederla così, sofferente, tremante e paonazza. Leggeva la disperazione in quegli occhi che lo imploravano di porre fine a quel supplizio.
«Coraggio, signora Tufi. Ci siamo quasi» la incoraggiò l'ostetrica.
«L'hai sentita? Sta per finire tutto» sussurrò l'uomo all'orecchio della moglie.
«Lo dice da un'ora» ringhiò lei, stringendo più forte la mano del compagno.
«Coraggio Sabrina. Ora devi spingere molto forte. Se spingi e respiri come ti diciamo di fare, in pochi minuti potrai abbracciare il tuo bambino» la istruì la dottoressa posizionata tra le sue gambe.
«Mi dia un secondo» implorò la donna, le lacrime che minacciavano di uscire dagli occhi.
Si costrinse a pensare ad altro, a trovare qualcosa che la distraesse per qualche istante da tutto quel dolore.
Le venne in mente il giorno in cui Gabriele le chiese di sposarlo.
Si ricordava perfettamente quel momento: erano entrambi abbandonati sulla sabbia bianchissima di una spiaggia alle Bahamas; erano passati tre mesi dalla laurea, ed entrambi erano felici e soddisfatti.
Gabriele aveva ottenuto il posto che desiderava in un'azienda multinazionale –ai tempi non si sarebbe mai immaginato che nel giro di tre anni sarebbe diventato uno dei manager – e stavano brindando alla sua assunzione con un bicchiere di succo d'ananas allungato con un goccio di vodka.
I signori Lo Presti e Tufi avevano regalato quel viaggio ai figli come premio per la laurea, e a loro la cosa andava benone.
Sabrina si ricordava che ad un tratto, senza nessun preavviso, lui si era alzato dalla sdraio ed aveva trascinato anche lei; quando entrambi furono in piedi, si era inginocchiato davanti a lei, aveva estratto una scatolina dalla tasca dei pantaloncini che aveva messo sopra al costume e l'aveva guardata negli occhi.
«Sabrina Lo Presti, sono sei anni che voglio chiedertelo. Forse anche di più. Ti ho amata dal primo momento in cui ti ho vista».
Lei aveva ridacchiato nervosamente. Non si sarebbe mai aspettato tutto quel romanticismo da Gabriele. Aveva smesso subito di ridere quandole iridi del ragazzo avevano cominciato a bruciare, trasformandoli in qualcosa di indefinibile.
«Vuoi sposarmi?»
Due parole così semplici, così piene di significato: di amore, di paura, di desiderio, di rispetto, di fiducia. Tutto, racchiuso in due semplici parole.
Aveva preferito annuire; non si era fidata della sua voce.
Lui le aveva messo l'anello al dito e, mentre si rialzava e allargava le braccia, lei gli si era gettata addosso, l'aveva stretto più che mai contro di sé ed aveva urlato con tutto il fiato che aveva in gola: «Sì cazzo, sì!»
Una contrazione e una fitta di dolore che la colpì dal basso ventre lungo tutta la spina dorsale la riportarono in quel letto.
Improvvisamente si sentì più sicura, più responsabile; si accorse anche che non desiderava altro che stringere tra le braccia quel bambino.
«Aiutami» sussurrò all'uomo accanto a lei.
«Sono qui apposta, Sabri».
E Sabrina iniziò a spingere con tutta la sua forza.
Seguì la respirazione che le suggeriva l'infermiera al fianco dell'ostetrica.
Ad ogni spinta sentiva il suo corpo dilaniarsi a metà.
Sentiva una sensazione del tutto nuova: la creatura che aveva portato dentro di sé per tutti quei mesi, ora le sembrava fuori posto. Le sembrava in pericolo: doveva salvarla, tirarla fuori da lì.
Pervasa dal puro istinto materno, stritolò la mano di Gabriele nella sua, puntellandosi sui gomiti e fissandosi le ginocchia.
«Coraggio, Sabrina!» la esortò con un sorriso la dottoressa. «Riesco a vedere la testa!»
Quelle parole la riempirono di gioia.
«Stai andando benissimo amore mio, continua» le mormorò il bruno nell'orecchio. «Ci sei quasi».
Lei chiuse gli occhi, con la mano libera strinse le lenzuola in una presa spasmodica, e si concentrò solo sul suo corpo.
Si costrinse a prendere un respiro profondo, più profondo che poté.
Spinse.
«Ti odio» berciò contro il marito.
«Ti amo» ribatté lui.
Gli incitamenti delle infermiere e dell'ostetrica crebbero di volume e intensità.
Ripeté quell'operazione altre due, quattro, otto volte.
Perse il conto.
«L'ultima volta, ci sei!»
Con un urlo disumano, Sabrina diede l'ultima spinta, sentendo la vita abbandonare il suo ventre, lasciandolo vuoto.
Si lasciò cadere all'indietro, mentre la presa sulla mano del marito si allentò.
Lui le accarezzava i capelli incessantemente, mentre le lasciava innumerevoli baci sulla punta del naso, sugli zigomi e sulle labbra secche.
«Ce l'hai fatta».
Sabrina, che aveva ancora gli occhi chiusi, poteva giurare che Gabriele stesse piangendo.
I suoi occhi si aprirono di scatto quando il pianto di un bambino invase l'aria.
«Oh, ma guarda che splendido ometto abbiamo qui» gongolò una delle infermiere mentre giungeva dalla coppia.
Tra le braccia aveva un fagotto che porse immediatamente a Sabrina; lei tese le braccia tremanti che, non appena sfiorarono il bambino, diventarono incredibilmente ferme e consapevoli.
«Oh, Cristo» gemette Gabriele accanto a lei. «È...»
«Bellissimo» concluse lei.
L'infermiera l'aiutò a disfarsi di una manica del camice, permettendole di allattare il bambino. Quando il piccolo si attaccò ad occhi chiusi al suo seno, lei non riuscì a fermare un singhiozzo.
«Siete la cosa più bella che io abbia mai visto» bisbigliò Gabriele.
«Senza di te non saremmo niente» rispose lei con un sorriso stanco.
«Che nome metto?» trillò un'altra infermiera fermandosi davanti alla famiglia con un braccialettino bianco in mano.
«Riccardo Tufi» rispose il padre, mentre la moglie annuiva.
«Perfetto».
Prima che si allontanasse troppo, Sabrina trovò le forze per fermarla: «Mi scusi».
Quella si voltò. «Sì?»
«Quanto ci vuole per sapere quale sarà il colore definitivo dei suoi occhi?»
«Oh, non ci sono tempistiche precise, varia da bambino a bambino».
«Capisco. Grazie infinite».
Quella sera, tutti festeggiarono la nascita del piccolo Tufi.
Paola diede il lieto annuncio del terzo figlio due ore più tardi, scatenando l'euforia generale.
Nikki, due settimane più tardi, decise di eseguire il test di gravidanza, che risultò positivo. Lei e Cristian anticiparono la data delle nozze a marzo. Il vestito le calzava a pennello nonostante il ventre ormai decisamente sporgente.
Davide chiese finalmente la mano di Valentina; avvenne durante il battesimo del piccolo Riccardo. Valentina ebbe una crisi di pianto a causa della troppa emozione.
Riccardo dimostrò di non avere gli occhi verdi; ma la sua sorellina Sara, nata tre anni dopo di lui, al posto degli occhi aveva due smeraldi brillanti.
Mattia e Paola diedero due sorelline ai loro bambini, due gemelle di nome Lisa e Marika.
Cristian, Mattia, Gabriele, Davide e Giorgio rimasero amici per tanto, tantissimo tempo.
Look at me!
Oh cielo, è davvero finita. Finita. Over. Per sempre. Sono tipo in lacrime, lalalala.
Io spero che l'epilogo sia stato all'altezza delle vostre aspettative. Mi scuso perché è venuto fuori moooolto più lungo del previsto... non riuscivo a smettere di scrivere ahahah.
È l'ultima volta che aggiorno questa storia, quindi questa è la mia ultima occasione di ringraziarvi.
Dividerò i miei ringraziamenti in tre parti:
Grazie a tutte voi, per il vostro supporto, per il vostro affetto; grazie per tutti i commenti straordinari che mi avete lasciato. Grazie per 2,5k di letture e per le 273 stelline. Siete le lettrici migliori del mondo, dico sul serio. Senza di voi, senza il vostro appoggio e i vostri messaggi, 'L'amore è qua' non sarebbe mai esistita.
Grazie a Wattpad, che mi ha dato l'opportunità di sentirmi una pseudo scrittrice per qualche mese. È uno dei siti migliori che siano mai stati creati.
Ed infine, ci terrei a ringraziare (anche se non leggeranno mai queste parole), i ragazzi di Amici. Mi avete inconsapevolmente tenuto compagnia durante la stesura di 'L'amore è qua' e mi avete (sempre senza saperlo) suggerito alcune scene che da sola non sarei mai riuscita a creare. Grazie per le vostre voci, per i vostri sorrisi, per le vostre canzoni e per il vostri balletti e per il vostro amore verso le vostre fan.
Io la chiudo qui, direi che mi sono dilungata abbastanza. Come al solito, spero vi piaccia. Se siete arrivate fino in fondo, spero siate sopravvissute AHAHAHE, per citare uno dei più grandi scrittori della letteratura italiana, Alessandro Manzoni: "La quale (storia), se non v'è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l'ha scritta [...] Ma se invece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s'è fatto apposta".
Grazie ancora per ogni cosa.
Vi voglio un bene infinito!
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L'amore è qua
Romance«Un bacio sulla guancia» era disgustato. «Di nuovo». «Sta’ zitto Gabri. Sto cercando di seguire». Il bruno non si arrese, e prese il gomito dell’amico, facendolo distrarre nuovamente. «Voglio seguire questa fottuta lezione, Gabriele. Lasciami in pac...