Padre

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Entrai nel locale non molto illuminato per via del cielo nuvoloso.
Solo in quel momento mi accorgevo di una cosa fondamentale.
Come avrei riconosciuto mio padre?
Lui non sapeva chi ero io e io non avevo idea di chi fosse lui.
Respirai a fondo lasciando che l'ossigeno mi circolasse nel sangue e cercai di stare calma.
Mi ricordavo che mio padre mi aveva detto che lui e Marcus sono simili ma che lui é un po' più alto.
Lí dentro c'erano un ragazzo giovane sulla ventina con le cuffie nelle orecchie,uno studente probabilmente e un gruppo di tre ragazze che chiaccheravano con delle tazze di cioccolata davanti.
Marcus non era ancora arrivato.
Mi sedetti in un tavolino in un angolo ma da dove potevo vedere bene l'entrata.
Non presi nulla perché ero troppo agitata per ingerire qualsiasi cosa.
L'ansia mi uccideva,avevo le mani fredde e torturavo una ciocca di capelli che continuava a cadermi sugli occhi.Ogni trenta secondi osservavo l'orologio nella speranza che il tempo si velocizzazze invece sembrava scorrere ancora più lento.
Alle tre e dieci ancora non era entrato nessuno.
Dentro di me avevo tremendamente paura e mi sembrava quasi di essere sul punto di piangere.Respiravo sempre più velocemente e il cuore segnava il ritmo di un treno.
Dovevo assolutamente rilassarmi o sarei svenuta da un momento all'altro.
Alle tre e tredici vidi un uomo con un cappotto nero correre sul marciapiede e fermarsi davanti alla porta per riprendere fiato.
Poi entró e si guardò intorno.
Era lui.
Non avevo dubbi.Il mio stesso colore di capelli biondiccio tendente al marroncino e leggermente ricciolo.
Gli occhi marroni che illuminati dalla luce mostravano delle sfumature verde chiaro.
Alto sí quasi come mio padre.
Se io avevo sempre creduto di assomigliare a mio padre,quell'uomo era la mia fotocopia.
Era disorientato,lo sguardo perso.Cercava qualcuno e quel qualcuno ero io.
Coraggiosamente mi alzai e rimasi immobile difianco al tavolo con le gambe tremanti.
L'uomo si voltó e si accorse di me. Vidi sul suo viso farsi strada molte emozioni:stupore,incertezza,paura e altre che non riuscivo a decifrare.
Fece qualche passo lento verso di me ancora con la stessa espressione.
-Sophie-disse quando fu a circa un metro da me.
La sua voce aveva un non so che di rassicurante.
-Ma-marcus-balbettai
-Sí sono io- disse sorridendomi.
Ricambiai ma non sapevo quanto il mio sorriso fosse convincente.
-Assomigli tanto a tua madre- mi disse con voce nostalgica.
-Grazie-risposi in tono poco convinto.Mi sentivo incredibilmente stupida,non riuscivo a dire più di una parola.
Si avvicinó al tavolo,mise il cappotto sulla sedia e ci sedemmo.
-Vuoi qualcosa?-mi chiese gentile ma teso nella voce
-No no grazie-gli dissi
-Ci sono molte domande che vorrei farti.Sono tuo padre e so solo il tuo nome.Ma prima vorrei farti anche delle scuse.Mi odierai me ne rendo conto, ho abbandonato tua madre e me ne sono andato.Ma se avessi saputo di te avrei cercato in ogni modo di starti vicino-
Nella sua voce c'era molto dolore e malinconia.
-Mi chiamo Sophie Scholl.Ho quindici anni,quasi sedici. Il mio comoleanno é il 29 ottobre.La mia vita fin da quando sono piccola sono i cavalli-respirai-Sembrerà strano me ne rendo conto ma io adoro il freddo e la pioggia,il calore dei vestiti caldi e il fascino del gelo,della nebbia.
Sono cresciuta vivendo molto spesso con la mia governante Cristine che per me é come una zia,per il resto i cavalli sono sempre stati la cosa che amo di più al mondo e che mi hanno sempre resa felice-
detta quella frase arrossí e Marcus se ne accorse subito.
-Perché arrossisci?- mi chiese subito  dopo
-Nulla di importante-risposi in fretta ma sapevo benissimo che non era vero
-Dimmelo-disse quasi ridendo
Ero incerta.Ma mi feci forza e decisi di dirglielo.
-Be in realtà ho mentito.È vero che i cavalli sono la mia ragione di vita e che mi rendono felice.Però non sono l'unica cosa che amo.Da un po' nella mia classe è arrivato un ragazzo nuovo.Anche lui cavalca come me e ci siamo messi assieme,amo anche lui e ringrazio sia innamorato di me-
il pensiero di Will mi aiutó a rilassarmi e un sorriso spontaneo mi nacque sul viso.
Non so cosa avrei dato per averlo li affianco a me,con le dite intrecciate alle mie.
-Mi sembra così strano avere una figlia-disse con voce pacata-pensare che un po' del mio sangue scorre nelle vene di qualcun'altro.Ma allo stesso tempo sento già che farei tutto per proteggerti-
mi sistemai un ricciolo dietro le orecchie.Era strano perché anche per me era lo stesso.Sentivo già di potergli volere bene nonostante tutto quello che aveva fatto.
Per tutto il resto del tempo parlammo di tante cose,lui mi raccontó della sua infanzia, dei suoi genitori, la sua vita e il suo lavoro.Anche io gli raccontai dei miei amici,di Spirit,della scuola,dei miei sogni.
Parlammo quasi fino alle sei ma non toccammo mai il tasto di mia madre.
Immaginavo che anche per lui fosse ancora una ferita aperta.
Quando le campane segnarono le sei uscimmo da Starbucks che per tutto il giorno era stato semivuoto.Con il cielo grigio e il freddo che iniziava ad arrivare,nonostante fosse solo il 27 settembre, nessuno usciva.
Fu molto gentile con me,mi chiese se volevo un passaggio a casa ma un autobus che passava proprio in quel momento ci sarebbe passato davanti così lo ringraziai e ci salutammo.
Durante il tragitto sentí che il mio corpo cominciava a perdere tensione e la musica nelle orecchie mi aiutava.
Comunque era ancora complicato pensare che quel quarantenne fosse in realtà mio padre.

La ragazza che amava la pioggiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora