Chapter 25.
Gennaio 1996.
I miei occhi si spalancarono e non videro la luce abbagliante del giorno, ma soltanto la fioca scia luminosa che emanava la lampadina avvitata all'incastro del lampadario.
Le pareti di quella stanza erano color ghiaccio, di quel bianco che stancava la vista a furia di procedere con la sua visione per lassi di tempo troppo lunghi e trasmetteva malinconia, senza superare la mia.
Non avevo mai trascorso le mie giornate in un luogo così desolato ed angosciante, ma in quel caso ero stata obbligata a rimanerci.
Quella situazione mi portò al ricordo di quando mia madre mi indusse a prendere parte ad una clinica che supportava i giovani che avevano problemi con le sostanze stupefacenti e ci andai, soltanto per il suo volere e poco per il mio.
Era un luogo simile, ma sicuramente più accogliente.
Gli ospedali non erano mai stati creati appositamente per assicurare un simpatico soggiorno alla persona che avrebbe approfittato della struttura e avrei dovuto imparare a non lamentarmi.
Ero lì, perché qualche settimana prima ero stata vittima di un incidente a bordo della mia auto e mi era stato vietato tassativamente di tornare a casa o di mettere piede fuori in strada.
Potevo considerarmi protagonista di un vero e proprio miracolo, dal momento in cui ero ubriaca in modo pessimo e viaggiavo per le strade di Los Angeles ad una velocità notevole, definita da mia madre "esagerata".
Dalla mia sbandata avevo rimediato due costole rotte capaci di impedirmi di respirare correttamente ed una frattura ad una vertebra toracica, la quale mi aveva regalato dei dolori con i quali non riuscivo a dormire da giorni.
Mi passai una mano tra i capelli e tentai di addrizzarmi contro la spalliera ferrea del letto, compiendo quel movimento a fatica, per poi stringere gli occhi a causa di una fitta intensa all'altezza del torace.
Era l'ora della colazione ed erano giorni che non toccavo cibo, tanto che alcune infermiere erano rimaste esauste da ogni mio comportamento e lasciavano le vivande sul comodino, sperando che ingerissi qualcosa.
Mangiare, in quelle condizioni, era l'ultimo dei miei problemi.
Ruotai debolmente il capo verso la finestra chiusa, la pioggia scivolava densa contro i vetri fino ad appannarli, trasmettendo il suo rumore fino al mio cuore rimasto in silenzio da troppo tempo.
Al posto di un semplice vassoio di plastica, quella mattina, su quella superficie rigida e scura, era posato un biglietto trattenuto da una busta per le lettere.
Per lei.
Non c'era alcuna firma sul davanti, soltanto quelle parole scritte con estrema cura da una calligrafia non troppo ordinata.
La mia stanza era una singola, non la condividevo con nessuna persona e senza ombra di dubbio qualcuno aveva sentito il desiderio di dedicarmi qualche proprio pensiero.
Ero stanca, gli occhi mi lacrimavano e non riuscii a rendermi conto che il mittente fosse la persona con la quale avevo condiviso una breve parte della mia esistenza.
Allungai il braccio verso il comodino ed afferrai la busta, facendola ruotare lentamente tra le mie mani alla ricerca di un indizio che mi conducesse al protagonista.
La aprii con estremo interesse misto ad eccitazione e mi accorsi di un oggetto contenuto all'interno, ovvero un anello color oro con una frase incisa all'interno.
Lo riconobbi immediatamente, ne avevo uno identico intorno al mio anulare e ancora non mi ero auto iniettata la forza per metterlo da parte, in un posto dove non lo avrei più cercato.
Un sistema per dimenticare una persona non esisteva, nessuno lo aveva creato, né era possibile dimenticare i ricordi.
Quelli tornavano sempre a galla, a distanza di momenti brevi e lunghi, di anni difficili e duri.
Sfilai il biglietto dalla carta che lo conteneva e ne vennero fuori tre fogli, ordinati uno dopo l'altro, composti da inchiostro nero e sbavato in alcuni punti.
Le sue lettere erano sempre state presentate in modo poco metodico, malgrado egli fosse una persona pignola in ogni ambito.
Le sue riflessioni gli venivano dettate del cuore, esso parlava per lui mediante l'intercessione dei termini ed egli non era capace di fermarli, né tantomeno di rallentarli.
Le mani iniziarono a tremarmi non appena lessi le prime parole, le quali mi fecero tornare in mente tutte le volte in cui aveva pronunciato il mio nome, rendendolo una soave tortura per l'udito.

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Heroine.
Romance"Lui era come la mia ultima dose di eroina, la più potente e prelibata. Quella che avrebbe messo fine alle mie sofferenze. Quella che non mi avrebbe lasciato scampo." Una potente droga della quale non esiste una cura, un potente anestetico capace di...