Una giornata insolita

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Tutto, nella mia vita, sembrava finalmente andare per il verso giusto: avevo un ragazzo fantastico, un lavoro che amavo e stavo addirittura diventando zia di una bambina che sarebbe sicuramente stata bellissima.
Niente avrebbe potuto rovinare quel momento perfetto.


Il sabato mattina era la mia giornata preferita.
James, il mio ragazzo, mi portava la colazione a letto e poi passavamo qualche ora a farci le coccole; lo amavo con tutto il cuore, sapeva essere l'unico a capirmi e mi sopportava ogni volta che mi lamentavo di qualcosa.
«Lo so, amore, sono delle persone orribili che ti fanno sgobbare dal mattino alla sera» mi canzonò, mentre gli raccontavo della mia settimana.
«Sei proprio insopportabile, James.» Ridemmo entrambi e poi mi lasciò un dolce bacio sulle labbra, prima di alzarsi. Protestai con un mugolio, ma era irremovibile.
Stavamo insieme da più di un anno ed era una delle cose più belle che mi potesse capitare; riusciva a confortarmi con un sorriso o una carezza e nonostante non fossi amante delle serate passate fuori, riuscivamo a trovare qualcosa da fare anche senza impegnarci troppo.
Dopo essermi alzata e lavata, scesi in cucina da lui, trovandolo intento a ripulire il solito disastro che combinava; era davvero premuroso a portarmi la colazione una volta a settimana e anche se a cucinare non era poi un granché, apprezzavo i suoi sforzi.
«Cosa facciamo oggi, Anda?» chiese, mentre si puliva le mani in uno strofinaccio. Odiavo quel soprannome, me lo aveva affibbiato qualche mese prima, senza un apparente motivo, solo per infastidirmi; storsi il naso e notando una spugna sul tavolo, gliela lanciai, colpendolo direttamente sul braccio.
«Con te non faccio proprio nulla... Jimmy» lo istigai a mia volta, usando un soprannome che avevo inventato solo per recargli fastidio quanto lui faceva con me.
«Piccola Anda, non dire così, dai.» Sorrise, venendomi incontro e avvolgendo le braccia attorno ai miei fianchi. I suoi occhi scuri si puntarono nei miei e non potei fare a meno di sorridere a trentadue denti.
«Io dico ciò che voglio» sussurrai, avvicinando il viso al suo, fino a sentire il suo respiro farsi più intenso.
«Allora ne pagherai le conseguenze» sussurrò di rimando e non riuscii a replicare che le sue labbra si pressarono sulle mie. Lo baciai lentamente, accarezzandogli i folti capelli corvini per poi staccarmi, dandogli una pacca sul petto.
«Pace fatta?» Mi guardò dolcemente e una leggera risata mi lasciò le labbra.
«Uhm... devo pensarci.» Ammiccai, staccandomi da lui e uscendo dalla cucina, recandomi in salotto a prendere le chiavi della macchina. Sentii dei passi alle mie spalle e mi voltai, trovandomelo davanti con un'espressione confusa.
«Tranquillo, non ti sto lasciando, vado solo a fare la spesa.» Ridacchiai, baciandolo sulla guancia; lui annuì, esibendo un mezzo sorriso e uscii di casa, pronta per andare al supermercato.


Arrivata a destinazione, il parcheggio era pieno e dovetti fermarmi lontano, facendo un bel pezzo a piedi; solitamente non mi dava fastidio fare una bella camminata, in fondo, stare sola, immersa nei miei stessi pensieri, era una delle cose a cui ero abituata maggiormente e che, spesso, mi faceva stare bene. Quello che mi piaceva meno, al contrario, era stare in mezzo alla gente. Attraversai le porte scorrevoli e presi un carrello, dirigendomi subito verso i reparti desiderati; presi tutto ciò che sapevo piacesse a James e anche se avrei voluto prendere delle pizze surgelate, cambiai idea, pensando di poterle ordinare anche alla pizzeria italiana dietro casa nostra.
Impiegai più del previsto, dato che quella mattina era più affollato del solito; andai alla cassa a pagare e, scorgendo la fila, repressi uno sbuffo. Stare in mezzo alla gente, aspettando in piedi, tra il tanfo e il casino, è sempre stato uno dei miei tantissimi punti deboli. Non lo sopportavo.
Dopo un tempo che a me parve eterno, fui finalmente fuori e potei dirigermi verso la macchina a riporre la mia spesa.


Nel tragitto verso casa decisi di fermarmi nel parco vicino al college che avevo frequentato; nonostante quel periodo fosse stato uno dei peggiori per me, a volte mi piaceva osservare la vita che albergava in quel luogo.
Mi sedetti su una panchina ad osservare i ragazzi che uscivano per pranzare; c'era una tale confusione che un tempo mi sarei rintanata nel mio solito angolino lontano da tutti, ma ero cresciuta, almeno in quel contesto mi sentivo cresciuta.
Erano passati solamente cinque anni dalla mia laurea, eppure, certe volte, mi sembrava una vita; tornare lì era un po' come cercare di convincermi di essere cambiata.
Il sole splendeva nel cielo e il viavai di ragazzini che erano in pausa pranzo faceva da protagonista alla scena; a volte mi immaginavo come sarebbe stata la mia adolescenza se fossi stata una ragazza più aperta agli altri, alle novità, alla vita.
Tornare in quel luogo la vedevo come una specie di terapia d'urto: scontrarsi con un vecchio nemico per superare un brutto periodo.
«Dai, ma che sfigato!» sentii pronunciare da voci femminili. Mi destai dai miei pensieri, voltandomi in direzione della fonte, ma quello che vidi mi fece inorridire: tre ragazze stavano canzonando un ragazzo che sembrava aver tentato un approccio con una e respinto in modo palesemente brusco.
«S-scusami... S-Stacy... non volevo» si difese lui, arrossendo visibilmente, ma loro continuavano a ridere per qualcosa, guardando i suoi pantaloni; seguii la direzione dei loro sguardi e la vidi: una perfetta erezione, in pubblico; provò a coprirla senza successo, mentre loro tre continuavano a ridere.
Senza rendermene conto, come se fossi stata guidata da qualche strano istinto, mi trovai proprio di fronte a loro, accanto a quel ragazzo, e il mio sguardo era tutt'altro che amichevole.
«Uh, è arrivata la mammina?» commentò la più alta tra le tre, ridendo e facendo scintillare l'apparecchio.
«Se mi fate la cortesia di levarvi dai piedi, magari.» Il mio tono era serio e deciso, facendomi stupire perfino di me stessa e di come loro eseguirono gli ordini senza obiettare, per poi sculettare brontolando chissà verso quale meta.
Mi voltai verso il ragazzo che, con mia grande sorpresa, era ancora più alto di come risultasse da lontano e superava il mio metro e sessantacinque di ben venti centimetri.
«Stai bene?» Mi ritrovai a chiedergli, scoprendo che aveva due meravigliosi occhi chiarissimi, di un azzurro acceso da mozzare il fiato.
«Grazie,» disse in tono sarcastico «mi hai fatto passare per uno scemo.»
"Lo sembravi anche senza di me", pensai mentre si allontanava scocciato; rimasi impietrita per qualche secondo, ma poi lo seguii, cercando di stare al suo passo, anche se non era molto semplice.
«Aspetta!» Cercai di fermarlo, parandomi davanti a lui con il fiatone; «Volevo solo aiutarti» mi difesi, alzando il viso per osservarlo meglio.
La sua somiglianza con la me adolescente mi lasciò attonita: capelli biondi, occhi di un azzurro limpido, timidezza palpabile e imbarazzo costante. In questi semplici tratti mi rispecchiai talmente tanto che deglutii.
«Cosa sei, una specie di pedofila?» Mi guardò con disprezzo, incrociando le braccia al petto e io aggrottai le sopracciglia.
«Cosa? Ma che dici? Non sei maggiorenne?» Non era certo mia intenzione passare per una pedofila, stavo solo cercando di aiutarlo e poi non poteva davvero credere un'assurdità del genere.
«Sei seria? Vuoi davvero stuprarmi? Qui?» Si guardò intorno, squadrando l'orda di ragazzi che schiamazzavano nel parco. Sgranai gli occhi e mi allontanai di qualche passo, indignata.
«Pedofila? Io? Sei tu che scherzi, magari. Come potrei mai fare una cosa del genere?» Portai le mani sui fianchi, indicando con lo sguardo la sua erezione ancora visibile. «Senza quella non si può lavorare.» Azzardai un mezzo sorriso ironico, ma mi resi immediatamente conto di come stavo esattamente facendo lo stesso gioco di quelle ragazze da cui l'avevo salvato io stessa. Infatti si allontanò diventando ancora più rosso e cercando di coprirsi sempre di più; lo vidi accelerare il passo, facendosi spazio tra la folla.
Sarei potuta andarmene, lasciar perdere e dimenticarmi di tutto, tornare alla macchina e andare da James, raccontargli questa assurda vicenda e riderne insieme, ma qualcosa me lo impedì; il pensiero che lui fosse così simile a me, che fosse stato maltrattato come successe a me, conoscendo bene tutte le difficoltà che fui costretta ad affrontare e le emozioni negative che mi facevano stare male, mi immobilizzò.
Mi ritrovai a seguirlo in mezzo alla folla, correndo, finché non lo raggiunsi in un angolo imboscato del parco, coperto da folti cespugli poco curati; sentii dei singhiozzi attutiti e mi avvicinai titubante. Poteva davvero essere lui a piangere? Un ragazzo?
Lo vidi seduto per terra, con la testa tra le mani e mi feci coraggio; proseguii, sedendomi accanto a lui senza dire nulla, guardandolo e basta: sembrava così indifeso.
Non si mosse e lo interpretai come un permesso di rimanere.
«Cosa vuoi da me?» chiese, con la voce rotta dal pianto.
«Voglio aiutarti.» Quelle parole lasciarono le mie labbra quasi in automatico.
«Aiutarmi? Ti faccio pena per caso? E poi, dovrei davvero credere che uno schianto come te vorrebbe aiutare uno come me?» Tolse le mani dal viso e mi guardò con gli occhi arrossati; l'azzurro delle sue iridi era ancora più vivido. Sbattei le palpebre, pensando alla frase finale: mi riteneva uno schianto?
«No... semplicemente mi ricordi me alla tua età.» Gli misi una mano sulla spalla e i suoi occhi si indirizzarono in quel punto; lo vidi deglutire e serrare la mascella.
«Eri un disastro in tutto?» chiese, asciugandosi velocemente le guance. Annuii, accennando un sorriso malinconico.
Tutto ciò che avevo vissuto mi tornò in mente, in una frazione di secondo, e tutte quelle emozioni devastanti mi colpirono in pieno. Guardandolo, nella sua debolezza, mi venne l'istinto di accarezzargli il viso, per consolarlo, anche se, ovviamente, non lo feci. Sapevo bene cosa stesse provando ed era uno strazio. «Ho diciannove anni» continuò, accennando un sorriso.
«Allora, teoricamente, non è pedofilia.» Ridacchiò alla mia battuta, mostrando i denti. «Io sono Amanda» continuai, sorridendogli.
«Luke.» Mi porse la mano e gliela strinsi con vigore, staccandomi subito dopo. «Quindi tu... vorresti davvero aiutarmi? Uno sconosciuto?» Il suo sguardo mi scrutò per qualche secondo; in effetti suonava abbastanza strano.
Cosa mi era passato per la testa? Credevo che solo perché lo avessi visto debole, potevo precipitarmi nella sua vita e aiutarlo a superare ciò che io avevo dovuto affrontare da sola? E poi cosa avrei potuto fare per aiutarlo?
«Sì... hai ragione,» scossi la testa, «non sembra molto logico e... scusami.» Mi alzai, pulendomi dalla possibile terra rimasta sui miei indumenti. L'avevo aiutato a sfuggire da quelle antipatiche, poteva anche bastare.
Mi incamminai verso la folla e il mio cervello iniziò a chiedersi cosa potesse aver fatto scattare in me quell'insensato istinto. Solo perché avevo provato situazioni simili alla sua gli stavo davvero offrendo un aiuto?
«Quindi te ne vai così?» Mi bloccai e, voltandomi, puntai gli occhi su di lui, vedendo che anch'egli mi stava fissando, seduto nella stessa posizione.
«Sai...» sospirai, «so come ci si sente e mi spiacerebbe se qualcuno passasse quello che ho passato io... ma mi rendo conto che è un'assurdità.» Scossi la testa, sottolineando mentalmente la mia stupidità.
«Sì, lo è...» si alzò, continuando a guardarmi; «Cioè... sarebbe strano...»
«Sì, lo sarebbe... scusa.» Mi passai una mano sul viso, indietreggiando e tornando verso la mia macchina. Non riuscivo a credere di essere stata tanto avventata, non era da me. Il cuore cominciò a battere sempre più veloce, mentre una strana adrenalina mi scorreva nelle vene.
«Aspetta!» La sua voce mi fermò. «Sì, cioè... sarebbe strano, ma... potrebbe servirmi... in fondo.» Mi voltai verso di lui, inchiodandolo con gli occhi, confusa.
«Che vorresti dire?»
«Che accetto... accetto il tuo aiuto.» Lo vidi leggermente tentennante e rimasi a fissarlo, sbalordita. Sbattei le palpebre un paio di volte e dischiusi le labbra per dire qualcosa, ma non sapevo cosa.
Era successo tutto talmente in fretta che non mi ero neanche resa conto che lui avesse realmente accettato la mia offerta d'aiuto, detta d'impeto; eppure qualcosa dentro di me scattò, come una molla, e mi spinse a non scappare, perché in fondo volevo provarci.
Volevo davvero provare a dargli ciò che a me era stato negato: una possibilità di cambiare.



~
Salve a tutti cari lettori,
ho deciso di scrivere una fanfiction sui Lumanda (ship creata da me) perché mi piacciono molto entrambi (soprattutto Amanda).
Quest'idea l'avevo da qualche tempo, in testa, ma non sapevo come svilupparla; poi, all'improvviso, mi è arrivata l'illuminazione e così è nata Changes.

Spero davvero che questa storia possa piacervi quanto piace a me.
Ci ho messo davvero il cuore nello stenderla, nel creare le situazioni e i personaggi. Ho riso per la stupidità di alcune parti, odiato alcuni personaggi, contestato alcune scelte, amate altre, mi sono commossa, ho pianto, sorriso, vissuto con questa storia.
So che questo inizio è molto "veloce" e può sembrare frenetico o affrettato, ma più avanti tutto cambia. Non sarà facile come può sembrare da questo primo capitolo.
Quindi, se siete curiosi delle conseguenze di questa proposta, credo che dobbiate per forza continuarla.

La storia l'ho revisionata e ancora la sto revisionando, quindi non esitate a darmi consigli o segnalarmi errori di qualunque tipo.

Un bacio a tutti :*
~

*revisionato*

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