Il giorno seguente fu davvero pesante. Iniziò tutto male. A partire dalla sveglia che non suonò.
Aprii lentamente gli occhi stiracchiandomi, rendendomi conto che c'era già troppa luce per essere l'orario dell'alba. In meno di un secondo capii la tragedia che stava per avvenire, confermai la mia ipotesi guardando il telefono. 7:30. Quasi mi venne da piangere. Ancora assonnata scattai in piedi, mi preparai il più velocemente possibile e mi catapultai in macchina.
Tutto ciò a cui riuscivo a pensare erano gli sguardi inquisitori delle persone a cui sarei stata costretta stare a contatto all'entrata. Premetti il piede sull'acceleratore. Cercai di convincermi che non mi avrebbe notata nessuno, che sarebbe andato tutto bene, ma già dal momento in cui svoltai nel vialetto di scuola sentii il mio battito accelerare. Da quel momento in poi ogni mio gesto sarebbe potuto costarmi una figuraccia. Un parcheggio fatto male, o il giacchetto incastrato nella portiera, o inciampare sulle scale, qualsiasi cosa.
Fortunatamente parcheggiai decentemente, stetti attenta a evitare movimenti bruschi, perciò camminai lentamente, passo dopo passo, guardandomi le scarpe. Se avessi guardato una sola persona negli occhi mi avrebbero notato. Stava andando tutto bene, ero quasi arrivata in classe, quando una ragazza mi finì addosso. Panico.
Alzai lo sguardo, era una di quelle ragazze facili che avevo sempre denigrato. La guardai negli occhi, aveva lo sguardo gelido e arrogante di chi non ha niente ma crede di avere tutto. Deglutii. Potevo vedere nei suoi occhi che mi stava scrutando da capo a piedi. Il mio cappellino di lana storto, con la mia coda bassa e gli occhiali, il maglione a collo alto e i pantaloni della tuta. Sentii le gambe tremare.
-"Scusa". Mormorai sottovoce, avviandomi verso la classe.
-"Devi stare più attenta, sgorbio". Disse lei, scoppiando in una fragorosa risata. Poco dopo in molti ci stavano guardando, ridendo assieme a lei. Ridevano di me.
Mi girai a vuoto, cercando uno sguardo amico. Incrociai gli occhi seri di Gennaro, lo guardai chiedendogli aiuto, lui aveva il potere di farli smettere. Distolse lo sguardo e se ne andò, lasciandomi nel bel mezzo della mia più grande paura: la pubblica umiliazione.
Corsi in classe per non scoppiare a piangere, e mi sedetti nel banco più lontano possibile da quel gruppo, il primo.
Quella mattinata fu interminabile. Le parole del professore le sentivo distanti, quasi soffuse, mentre sentivo perfettamente le risate alle mia spalle su di me, sul mio abbigliamento, sul mio aspetto e sulla mia goffagine. Volevo sparire.
Fortunatamente quell'agonia a un certo punto finì, mi precipitai in macchina e respirai profondamente. Sarei dovuta andare direttamente al colloquio, senza neanche mangiare. Controllai di avere tutto, curriculum e documenti erano a posto. Mi avviai cercando di rilassarmi e pensando a delle risposte per le probabili domande che avrei ricevuto più tardi.
Entrai nello studio del dottor Curti, c'era quell'atmosfera lavorativa che avevo sempre sognato. Il silenzio che serve alle persone per concentrarsi, il profumo d'ambienti agli agrumi misto a quello della carta da fotocopie nuova. Una segretaria mi condusse alla sala d'attesa, era molto bella e piuttosto appariscente nel vestire, per un ruolo come quello.
Mi accomodai e mi guardai intorno. C'era una sfilza di ragazze della mia età, tutte molto in tiro. Chi con scollature profonde, chi con tacchi vertiginosi, gambe scoperte, trucco pesante. Eppure le vedevo a proprio agio, ridevano e chiacchieravano fra di loro. Quando entrai abbassarono il volume delle loro conversazioni fino a stare in silenzio. Mi guardarono qualche secondo e poi si scambiarono un'occhiata eloquente.
In effetti, avrei potuto sistemarmi meglio, ma possibile che nessuno pensasse alla comodità dei pantaloni della tuta? O al calore di un maglione di lana? Che fastidio. E che imbarazzo.
Aspettai il mio turno finché non mi chiamò la stessa segretaria all'entrata.
-"Signorina Esposito?"
-"Eccomi". Risposi tentando di sorridere naturalmente.
Mi accompagnò lungo un corridoio e mi fece entrare in una stanza. Era molto grande e molto luminosa, alle spalle della scrivania in vetro c'era una grande vetrata con la vista sul centro di Milano. Era un uomo di mezz'età abbastanza magro, non aveva particolari segni di vecchiaia sul viso, era vestito molto elegante e digitava velocemente al suo computer. Mi guardò velocemente e non disse niente, ritornando ai suoi impegni. Dopo qualche secondo, gli porsi la mano dicendo -"Buonasera, sono Elisabetta Esposito, piacere." Mi guardò nuovamente, un po' seccato e mormorò un: -"Si si, lascia tutto qui e per me puoi andare."
Rimasi a bocca aperta, lasciai la cartellina sulla scrivania e me ne andai senza salutare. Che cafone. Ero così arrabbiata, ma allo stesso tempo delusa. Possibile che l'unica cosa che contasse era l'estetica? A nessuna più importava delle competenze, dell'intelligenza, bontà d'animo di una persona, importava solo quanto fossi bella e quanto fossi facile. Possibile che l'umanità si fosse ridotta così? Si fosse impoverita così?
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"Come tu mi vuoi"
FanfictionElisabetta e Gennaro. Così diversi, ma il destino li vorrà sempre vicini, per quanto loro cerchino di allontanarsi si ritroveranno sempre legati, intrecciati, in un rapporto di sentimenti contrastanti.