Capitolo 14.

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Lali's pov.

Salgo sull'autobus che solitamente passa ogni 5 minuti dal mio quartiere e mi siedo in uno sei tanti posti liberi. Prendo le cuffiette e faccio partire una canzone a caso, che, per fortuna o per sfortuna è "Yo te esperaré" di Cali y el Dandee. Le lacrime continuano a rigare le mie guance, ormai quasi non me ne accorgo più, mi sono abituata a piangere oramai, d'altronde lo faccio 24 ore su 24, quasi quasi apro una fabbrica di lacrime. Chi cerca un lavoro, ed è bravo a piangere, può presentarsi nel mio ufficio (la mia stanza) dalle 12:00 in poi, grazie. Le persone, le auto, gli scooter, le case, gli alberi...tutto intorno a me si muove, o meglio sono io che mi muovo stando ferma. Non ha senso questa cosa, io sto qui seduta, ma in realtà mi sto muovendo, è strano, no? No, va bene, è una cosa normalissima, ma ho bisogno di distrarmi. Peter non può essere finito in ospedale, non è giusto. Perché proprio lui? E poi, ci ho anche litigato, mi sento uno schifo. Ho bisogno di sapere che lui ci sarà ancora, che ci sarà sempre, che non mi lascerà mai. Ho bisogno di perdermi nel suo meraviglioso odore di cioccolato e tabacco, ho bisogno di vederlo aspirare almeno ancora una volta una sigaretta, anche se odio che lo faccia, ma quel gesto lo rende irresistibile. Ho bisogno di toccare e scompigliare ancora quei capelli meravigliosi, di guardare quegli occhi verde foresta e perdermici dentro. Ho bisogno di sentirmi ancora protetta tra le sue braccia, per sempre. E voglio sentirmi ancora chiamare "piccola" da quella voce, da lui, voglio vedere ancora le sue labbra mentre pronunciano quella parola. E poi litigarci quando ha gli attacchi di gelosia, giocare alla play station, parlare di cose serie in spiaggia, andare in scooter avvinghiata come una sanguisuga a lui, ascoltarlo cantare. Ho bisogno di rivedere Peter e sapere che sta bene. Tutto qui. 

-Signorina, è l'ultima fermata, deve scendere.- mi dice l'autista dell'autobus con una voce leggermente scocciata. Stropiccio gli occhi e, pur vedendo appannato per via delle lacrime, riconosco l'ospedale ad una centinaia di metri.

-Si, mi scusi. Arrivederci.- dico scendendo velocemente. Mi fermo sul marciapiede a fissare l'ospedale mentre l'autobus da cui sono appena scesa mi passa davanti lasciando anche una folata di fumo nero. Attraverso la strada e continuo a camminare verso il grande edificio bianco dal quale entrano ed escono una marea di persone. Povero Peter, lui ha sempre odiato gli ospedali, non vuole ammetterlo, ma ha paura della morte, e l'ospedale per lui rappresenta la morte. Ha sempre detto che è un posto orribile perché ci nasci e, la maggior parte delle volte, ci muori.                                                           Senza nemmeno accorgermene mi ritrovo la porta di vetro davanti. Allungo la mano e giro la maniglia, entro in quello che credo sia l'atrio, mi guardo intorno e dopo poco vedo la reception. Mi avvio lì e una ragazza sulla trentina d'anni mi sorride calorosamente. Ha i capelli mossi, le arrivano poco più giù delle spalle, sono rossi e tinti, la fronte è coperta da una frangetta abbastanza precisa. Porta gli occhiali, un paio della Rayban neri, con lenti abbastanza spesse, tanto da renderle gli occhi azzurri come una palla. E' in camice verde, da infermiera, e sul cartellino che porta al petto c'è scritto Carla G. 

-Ciao, come posso esserti d'aiuto?- chiede molto gentilmente.

-Sto-sto cer-cercando...- cerco di dire, ma le lacrime e i singhiozzi me lo impediscono.

-Ehi, calma signorina, calma. Cos'è successo?- chiede spostandosi una ciocca dietro all'orecchio senza togliere lo sguardo da me.

-Il mio migliore amico è in questo fottuto posto e lo sto cercando.- dico come meglio mi riesce.

-Ah, mi dispiace. Come si chiama il tuo amico?-

-Peter....ah no. Juan Pedro Lanzani.- dico scuotendo la testa. I capelli mi si sono tutti appiccicati in faccia, il trucco è colato di sicuro, gli occhi saranno rossi e gonfi, ma le lacrime continuano a scendere.

-Allora, ottavo piano stanza 273. C'è un ascensore proprio qui dietro, puoi usare quello.-

-Grazie mille.- inizio a camminare verso l'ascensore che poco prima mi aveva indicato.

-Signorina!- mi chiama lei mentre la porta dell'ascensore sta per chiudersi. -Buona fortuna.- dice con il solito sorriso sulle labbra. 

-Grazie.- sussurro io una volta chiusa la porta. In un batter d'occhio arrivo all'ottavo piano e cerco la stanza indicatami. In giro si vedono infermieri e qualche medico, ma di pazienti nemmeno l'ombra. Appena trovo la stanza, noto Claudia seduta su una scomoda sedia di plastica gialla davanti alla stanza del figlio, mentre piange e mia madre seduta accanto a lei che l'abbraccia.

-Lali.- dice la mamma di Peter non appena mi vede arrivare. Non ha una bella cera, ma di sicuro, da come mi sta guardando, meglio della mia. 

-Claudia.- Affermo io abbracciandola. Lei è come una madre per me, tutto quello che le sta accadendo, ci sta accadendo, è ingiusto.

-Grazie per essere venuta, grazie mille.- biascica con la testa appoggiata sulla mia spalla.

-Come sta Peter? Cos'è successo?- chiedo io. Ci stacchiamo dall'abbraccio e si risiede. Sposta i capelli biondi dietro le spalle e mia madre le mette una mano sulla spalla come segno di supporto. La loro amicizia è indistruttibile, si conoscono da più di 30 anni e sono ancora amiche. Vorrei tanto che anche io e Peter rimanessimo amici per sempre ma sembra che ultimamente le cose non vadano tanto bene. Tutto questo per colpa di cosa? Semplice. Dell'adolescenza. Quel fottuto periodo che ti scombussola in tutto e per tutto, quello in cui sei più forte di un adulto ma più fragile di un bambino, quello che definiscono il periodo più bello della tua vita. E certo, sembra facile per loro, no? Secondo me, l'unico momento bello della vita, è quando vai da qualche parte in cui non sei mai potuta andare con  la sola persona che vuoi accanto. Solo quello secondo me. Volete sapere io dove vorrei andare? Io vorrei andare in qualche bellissimo posto che nessuno conosce, basta che sia lontano da qui, lontano da tutti. E la persona che voglio accanto è Peter. 

-Non bene, Lali. Ha avuto un incidente in scooter, i medici dicono che ha anche una polmonite. Si è rotto 2 costole, una gamba, e...- cerca di dire ma poi scoppia in lacrime più di quanto non sia già scoppiata. 

-Ed è entrato in coma.- finisce di spiegare il generale Majo. Ok, nient'altro? Per un semplice incidente in scooter lui rischia la vita, mentre gente che si lancia dai palazzi quasi non si fa nulla. Mi avvicino alla finestra che dà all'interno della stanza. Peter è lì, con le bende sulla testa, i lividi sulla faccia, la gamba ingessata, attaccato a quel macchinario che gli monitora il battito del cuore. Deve farcela. Deve farcela per Claudia, per Juan, per i suoi fratelli, per i suoi amici, per me. E se non vuole farlo per me, lo faccia per quella troia della sua ragazza. Basta che si risveglia, perché non posso vivere senza lui. Può anche non volermi parlare più, non voler aver niente a che fare con me, ma mi basta solo rivederlo sveglio, felice, fuori da questo posto infernale. Anche se non sarà più mio. Quindi, cazzo, Peter svegliati che mi manchi.

Fine capitolo 14.

Il nostro caro Peter se la passa piuttosto maluccio. E anche la nostra Lali. Eh, l'adolescenza gioca brutti scherzi. Secondo voi Peter si rimetterà? Lali sarà in grado di affrontare la situazione o se ne laverà le mani? E poi...Peter vorrà ancora avere a che fare con Lali? Lasciate una stellina e commentate. Baci, Bea.

•Se l'amore non sei tu, allora non esiste.•Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora