AMMISSIONI

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POV NADINE

Rovistai nell'armadio alla ricerca di un pigiama di Tom. Ero assolutamente certa che ne avesse dimenticato uno perchè quando mi aveva lasciata lo avevo ficcato in uno scatolone, insieme a tutte le cose che mi ricordavano la nostra relazione. Trovai la scatola sotto una pila di vestiti sporchi in attesa che mi decidessi di portare in lavanderia e a fatica la trascinai verso di me. Il coperchio di cartone era strappato sullo spigolo destro, a ricordo di un mio attacco di rabbia e si squarciò completamente quando lo sollevai. All'interno ritrovai tutti i ricordi che avevo finto di aver dimenticato per timore che, guardandoli, avessero potuto riaprire ferite faticosamente rimarginate. C'erano due palle da tennis, un paio di infradito con la plastica tagliata all'altezza del tallone, alcune fotografie scattate durante la nostra brevissima vacanza a Londra. Osservai il mio volto stampato su carta, chiedendomi quando di ciò che avevo vissuto fosse vero. Era come essere un tutt'uno con un sogno: le sensazioni provate e che ricordavo erano vere, ma tutto ciò che avevo vissuto era solo frutto della mia fantasia. La mia mente si era cucita addosso dei ricordi fasulli, perdendo per strada quelli veri. Passai un dito sulla carta plasticata di una fotografia in cui io e Tom stavamo ridendo abbracciati, sullo sfondo del Palazzo di Westminster, con le sponde del Tamigi a fare da contorno. La fotografia era così reale al tatto! Eppure quel giorno non era mai esistito. Non ero mai stata a Londra. Mi chiesi come potevo avere ricordi così vividi e dettagliati di un posto che non avevo mai visto, se non riportato su qualche giornale. Quanto potere aveva quel sortilegio? Quante catene aveva usato per imprigionare la mia mente? E quali confini le aveva imposto?

Rovistai all'interno dello scatolone e ritrovai un portachiavi che avevamo vinto alla pesca di benificenza, un paio di occhiali da sole con la stanghetta sinistra traballante e un pigiama blu, a maniche corte. Lo srotolai e valutai rapidamente la taglia. Di certo ad Alec sarebbe andato molto stretto. Lo infilai tra l'ascella e il braccio e andai verso il bagno. 

"Alec?", bussai.

Sentivo l'acqua scorrere e fermarsi. Scorrere e fermarsi. Probabilmente stava di nuovo giocando con il rubinetto. Aveva accettato con facilità il computer, la televisione e l'elettricità, ma l'impianto idrico continuava in un modo o nell'altro ad affascinarlo. 

Schiusi la porta e sbirciai titubante tra lo spiraglio. "Sei vestito?".

"Sì".

Spalancai la porta e come immaginavo lo trovai chino sopra il lavandino a fissare come il getto d'acqua venisse sparato fuori dal filtro. La sua meraviglia genuina era quasi affascinante. 

"Ti ho portato un pigiama". Lo posai sopra la tavolozza del water e per un secondo restai a dondolarmi sui piedi. Mi aveva sentita? "Alec?".

"Di chi è?".

Corrugai la fronte. "L'acqua?".

"Il pigiama".

"Ah!". Cavolo! Mi morsi la lingua e in fretta decisi di mentire. "Di mio padre. Probabilmente ti andrà piccolo".

Chiuse il rubinetto e lasciò vagare gli occhi sulle varie bottigliette che avevo allineato sul piccolo mobiletto accanto al lavandino. Erano ancora quasi tutte sigillate sebbene mi fossero state regalate il Natale prima. Con un fitta di rimorso mi accorsi che avevo trascorso la mia intera esistenza in una prigione. Seppur il mio corpo giaceva immobile in una teca protetta dalle mura di una chiesa, imprigionato in un antico sortilegio, la mia mente non era riuscita a guadagnare la libertà di cui andava tanto gelosa. Nel futuro che avevo immaginato, la mia vita era stata sempre rinchiusa in una prigione simile, divisa tra biblioteca e ospedale. 

"Non ha importanza", fece spallucce, tornando a riaprire il rubinetto. Il getto d'acqua schizzò sulla porcellana, schizzando alcune gocce sulla specchiera. "Io dormo nudo".

SEI MIA PER DIRITTODove le storie prendono vita. Scoprilo ora