ALDILA' DI UN SOGNO

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POV NADINE

"Ciao", mormorò Alec, il sorriso nel tono. C'era una nuova tenerezza nascosta in quel semplice saluto che lo faceva sembrare quasi una dichiarazione d'amore.

Tornai col volto rivolto verso la finestra, facendo comunque sì che Alec riuscisse a captare il mio sorriso. "Ciao".

Lo sentii muoversi nella stanza. Era bello. Era come se ci fosse sempre stato.

"Che cosa stavi facendo?", chiese.

"Pensavo".

"Tu?", c'era fin troppo stupore nel tono e capii che mi stava prendendo in giro.

Mi voltai giusto il tempo per cogliere le sue sopracciglia sollevate in segno di sorpresa e ruotai gli occhi. Non avevo voglia di giocare. "Sì, io... stupido", aggiunsi quasi sottovoce.

La sua risata riempì la stanza e si placò con lentezza, fino a trasformarsi in un silenzio lungo e pieno di incertezza. Sapevo a cosa stava pensando, perchè era esattamente ciò che stavo pensando io. Il peso dell'imminente addio ci schiacciava con una forza primordiale, quasi la natura stessa volesse fare violenza su di noi allo stesso modo in cui si era scatenata per millenni contro la terra. Quello che non sapevo era fino a che punto sarebbe stato sincero con me. Quello che temevo era che se ne sarebbe andato senza essere capace di salutare me e suo figlio, senza dirmi che quacosa l'aveva spinto a voler partire prima di me. Non mi importava indagare sulle motivazioni; il senso di perdita era più che sufficiente senza bisogno di rinvigorirlo con delle risposte che mi avrebbero certamente fatta sentire più inadeguata di quanto mi sentissi già in quel momento.  

Perchè era evidente che da quando avevo ricordato, qualcosa tra di noi era andato in mille pezzi. Ed era evidente che dentro di lui, quel mio semplice ricordo, aveva riportato a galla quanto le nostre mentalità fossero incompatibili. Non occorreva essere dei geni nella letteratura storica per sapere che ai suoi occhi dovevo apparire come la peggiore delle donne. Ecco perchè mi stava lasciando. Inconsciamente mi ero già risposta da sola.

"Che cosa sta succedendo nella tua testolina, amore mio?", domandò dolce.

Il tono mi fece ribollire il sangue. Pur di tenermi nascosta la sua decisione di partire senza di me avrebbe chiuso gli occhi e sigillato il cuore, fingendo di provare un affetto che non sentiva più ed usando epiteti come "amore mio" per non destare in me alcun sospetto. Ignaro che in realtà Mary mi avesse detto per filo e per segno le sue intenzioni, avrebbe continuato a tenermi all'oscuro per non concedermi il tempo di fiondarmi dal tatuatore e mandare all'aria i suoi progetti. Avrei potuto farlo. Lo sapevo. E se non l'avevo fatto era perchè una piccola parte di me riusciva ancora a volermi bene e a tenermi alla larga dall'umiliazione. No! Non mi sarei umiliata costringendolo a stare con me. Voleva tenermi fuori dalla sua vita, alla larga da sé stesso, e non ero così masochista da imporgli il nostro matrimonio e nostro figlio. 

Il mento mi tremò, sotto sforzo per trattenere un singhiozzo. Malgrado avessi la netta sensazione che un giorno ci saremmo incontrati di nuovo, il dolore che sentivo per il presente non riusciva a saziarsi di questa consapevolezza nè a consolarsi nel fatto che, nonostante il tempo avesse giocato con le nostre vite, eravamo sempre riusciti a ritrovarci.

Anche aldilà di un sogno. 

"Vuoi dirmelo?", mi incalzò, sedendosi di fronte a me, sul bordo della scrivania.

Chiusi gli occhi per non fargli intuire il panico che stava montando dentro di me. L'indomani sarei stata catapultata indietro nel tempo e per certi versi mi sentivo come quando al momento della partenza si fa l'inventario di ciò che si ha messo in valigia, cercando di capire se si ha dimenticato qualcosa. Solo che in quel caso si poteva sempre invertire la rotta, tornare a casa, recuperare ciò che si aveva dimenticato e riprendere il viaggio. Io invece non sarei più tornata indietro. Mai più.

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