(Atto due) – "La pioggia pareva richiedere la sua vicinanza".
"Mamma, ti ho detto, penso per la millesima volta, che starò bene. Sono tre giorni, non cento!" – ridacchiai, tentando di nascondere la mia crescente tristezza. L'angoscia della solitudine prossima ad inghiottirmi per settantadue ore."Bo, non importa! Starai sola, sicura che lo vuoi?" – mi domandò, afferrandomi le mani tra le sue un po' raggrinzite dal tempo, ma ancora morbide.
Annuii, regalandole un ultimo bacio sulla guancia e una veloce stretta attorno al busto. Lei mi strinse una guancia con due dita, poi mi sorrise ed uscì, papà, severo, mi regalò solo un piccolo ciao. E poi la porta si chiuse con un veloce click, ed io mi gettai a corpo morto sul divano, sospirando.
Che avrei fatto, per tre giorni?
Dopo aver passato un pomeriggio a guardare i programmi più inutili in tv, mi decisi ad alzarmi per trascinarmi in cucina per preparare la cena. Questa si rivelò essere troppo abbondante, ma tenevo la testa sovrappensiero, e poi l'abitudine di cucinare per più persone si faceva sentire e, ahimè, che potevo farci?
Infilai l'eccesso in una ciotola e la conservai per le ore successive – nel caso in cui avessi avuto fame anche più tardi. E poi, dopo aver passato una buona ora a smanettare con il telecomando, mi fermai a guardare un notiziario, finii la mia cena e tentai di prendere sonno.
Per due ore. Due. Era sconfortante pensare che avrei dovuto sostenere quella routine per tre giorni ancora, e mi faceva male il cuore a pensare che non avrei potuto accucciarmi su mia madre di sera solo per racimolare quelle due carezze davanti ad un quiz, o al camino – spento in quel periodo, faceva troppo caldo per tenerlo acceso.
Mi spostai, nonostante fosse tardi, sulla veranda fuori. Coi miei piedi coperti solo da calzini arrivai scricchiolando alla sedia in vimini che era lì da forse dieci anni. L'odore d'umido mi colpì come un dolce buffetto in naso, si facevano sentire anche alcune gocce d'acqua e lo strato appiccicoso sulle braccia e le gambe. In fondo, dove cielo e terra si dividevano, striature di rosso e nuvole chiare mi facevano un po' gioire. Era una delle poche cose che amavo della mia vita, l'estate. Proprio l'odore, mi piaceva assai. Uscire fuori, di sera, e sentire l'odore distante chilometri della salsedine. Se avessi potuto avrei vissuto per secoli in esilio su di un'isola sperduta, anche quando faceva freddo. Obbligavo mio padre a portarmi al mare almeno due volte, in estate.
Forse mi piaceva così tanto proprio perché non ci andavo così spesso, ma che importa. L'importante non era quello.
A parer di mio padre, ero strana. Ma il fatto era questo: non sapeva come reputarmi, non aveva la minima idea di quale etichetta appicciarmi in fronte. Allora mi diceva – quando ancora parlavamo spesso – "Sei strana, proprio strana!"
Mi ero messa con l'anima in pace che sarebbe stato sempre così. Papà era un uomo che doveva, aveva bisogno di sapere pelo per pelo come una persona fosse, giusto per apprezzarla nei suoi pregi quando gli andava a genio, e per sminuirla pesantemente quando il fenomeno era l'esatto contrario.
Un rumore mi fece sussultare, la pioggia aveva preso a cadere con più velocità e forza sul terreno. Non so perché, il motivo ancora non mi si rivela concreto. Ma m'alzai, veloce, come una furia, non presi nulla, nemmeno un ombrello, né gli stivali. Mi gettai tra il boschetto, il cuore mi palpitava nel petto, mi esplodeva e il sangue stava affluendo troppo velocemente ovunque. Volevo solo arrivare al frutteto, sapere che stava riparato.
Sotto la pioggia di aprile, nemmeno io che tenevo una salute meno cagionevole potevo resistere, prendere una febbre era semplice, non lo era però farsela passare.
STAI LEGGENDO
Latĕbra
FanfictionTutto solo, circondato d'abbandono, a mugolare suoni indistinti, mentre a fatica si dondolava e un po' piangeva. Tutto solo, circondato d'abbandono, a scaldarmi il cuore - - povera creatura; lì mero, senza affetto. copyright reserved to @thescient...