Atto diciotto.

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Atto diciotto - E non dire che non fa niente, perché fa tanto. Fa tantissimo.


Spesso si dice ma a me, sai quanto può importare? Meno di niente, e poi le parole ti prendono e ti stritolano. Fanno più male dello schiaffo.

L'indifferenza, come tante cose al mondo, ha limiti ben disposti come la pazienza e la sopportazione, e quando tali limiti vengono sfondati a porte aperte – perché le mie porte erano già piene di incrinature e grandi buchi – fanno più male. T'arrivano prima e tu, in silenzio, le accetti perché le conosci. Non le saluti, non le guardi, ma sai perfettamente che ci sono e che non hanno intenzione di lasciarti stare.

Ma poteva andarti peggio, pensi. Le motivazioni al gesto potevano raddoppiarsi e le mani a fermarle per te non esistere nemmeno. Capace d'aiutare ma non d'aiutarsi, così ero.

Piena di consigli, di compassione, d'un cuore enorme per farci stare miliardi di persone, ma non me stessa. Non mi amavo abbastanza da dirmi che in fin dei conti io quella vita non la meritavo affatto. Che le mie guance dovevano arrossarsi per i complimenti, o per le carezze. E non per la malattia.

Ma se solo avessi provato a parlare io da sola mi sarei data la zappa sui piedi, fino ad apparire come il pidocchio estetico che Raskol'nikov è stato per se stesso, accusandosi di non solo uno o due, ma ben tre omicidi – uno di essi era ragionevole e comprendeva gli altri due.

Ma almeno lui, attraverso un gesto sconsideratamente esatto ebbe il coraggio d'uccidere il principio e il pidocchio con cui s'appellava era solitario ed auto-indotto. Io lo ero totalmente! Io lo ero sul serio agli occhi di tutti, una giovane miseria piena di pene e semplici raptus di voglia d'attenzione.

Harry al piano di sotto ancora urlava, e mamma mi teneva la testa sulle gambe mentre mi accarezzava i capelli – una donna di vent'anni non dovrebbe trovarsi in questo stato, e anche per quel motivo mi odiavo tremendamente tanto.

Le parole, nonostante i tentativi di mamma di metter su conversazione le sentivo lo stesso, e con particolare attenzione osservavo con l'udito come il tono di mio padre si perdesse in quello di Harry. Lui era furioso, fuori di sé, pieno di collera e glielo di leggeva negli occhi che più scuri di com'erano non potevano diventare.

"Che avete fatto a Londra? E questa Gemma, la sorella di Harry, com'è?" – sospirò mia madre, afferrando tra le dita alcune ciocche di capelli per avvolgerle tra le dita o intrecciarle.

Inspirai velocemente, socchiudendo gli occhi. "Gentile" – mormorai, pizzicandomi nervosamente le cuticole delle dita.

"Assomiglia ad Harry, scommetto"

Annuii. "Sì, gli assomiglia

"Mamma" – la richiamai, e lei subito volse lo sguardo verso il basso per acchiapparmi gli occhi. "Mi fa male la testa, potresti portarmi qualcosa?" – sussurrai, e senza nemmeno farselo ripetere due volte mi fece appoggiare la testa sul cuscino ed accostò la porta della mia stanza.

Nel frattempo continuavo ad ascoltare i monologhi di rabbia di Harry, che man mano che passava il tempo andavano scemando di tono – ma la rabbia restava comunque.

L'occhio, poi, mi cadde sulla mia scrivania, e vidi lì muto il diario di Harry, chiuso con un piccolo laccio di cuoio legato in un piccolo nodo debole. Mi alzai e tenendomi la testa per le vertigini lo afferrai, mi appoggiai gli occhiali sul ponte del naso e lo sfogliai un po'.

Inizialmente era pieno di parole sconnesse e sparse per il foglio, qualche disegnino in giro e a volte omini con piccole lineette al posto della braccia e delle gambe. Continuando a sfogliare c'erano citazioni di Coelho e qualche cosa di Baudelaire.

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