Atto cinque.

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(Atto cinque) – Ciò che rende bello il deserto è che da qualche parte nasconde un pozzo.

(Parla Bo)

Imparava giorno dopo giorno a fare sempre qualcosa di diverso.

Nel frattempo i miei genitori erano tornati, papà era di buon umore – strano – e mamma non dovette nemmeno dargli nulla per giorni. Lui usciva, andava a lavorare nei campi e di sera, al crepuscolo, tornava zuppo di sudore, sporco di terra per cena. Andava a dormire, e tutto daccapo.

Ma, insomma, lui viveva per lavorare. Quindi la fatica, come ogni tanto ripeteva in contesti non proprio azzeccati, non gli pesava tanto sulle spalle.

Di solito lo vedevo afferrare con una mano il bordo del tavolo e stringerlo con una tale forza da farlo scricchiolare appena, oppure fissarsi a guardare un piatto, mentre corrucciava lo sguardo.

Erano brutte, quelle sere.

Ma da un po' di tempo non le vivevo più; nemmeno le urla, solo tanto silenzio – che un po' mi faceva stare in pensiero. Papà parlava solo con mia madre, ogni tanto con parole un po' forti, ma comunque avevano un dialogo abbastanza acceso ogni giorno. Conversazioni abbastanza ripetitive, in fondo, ma almeno le facevano.

Io m'ero un po' allontanata, ma per scelta mia!, tenevo paura.

Stavo solo aspettando la buona occasione per lasciare la campagna e trovare una casa in cui potermi stanziare autonomamente, da qualche parte, in Inghilterra.

Nel frattempo dovevo sottostare al regime che s'era venuto a creare in casa dei miei genitori: mamma ed io a casa, e papà a lavorare.

Avevo terminato la scuola da quasi due anni, e in quel periodo mi dedicavo al dolce far nulla – prima di Harry.

Che poi, che bel nome c'aveva, quello là. Menomale che avevo trovato quella foto. A proposito, grazie a quella non avevo scoperto solo il suo nome, ma tant'altro: che volto avesse da bambino, il cognome, che aspetto avesse sua madre e, appunto, come si chiamasse lui.

Quando gli avevo parlato della foto, del suo nome e di sua madre, aveva preso a sbloccare passo per passo piccoli frammenti di ricordi un po' lontani. Ma se li stava ricordando, e con questi recuperava pure le parole e il modo di parlare.

L'accento del Cheshire e qualche modo cortese, che sicuramente il vivere selvaggiamente gli aveva fatto scordare. Insomma, aveva cominciato a ragionare con la sua testa un po' di più.

Ed erano passate quasi quattro settimane da quando stava nascosto nella stanza a doppio muro. Passava la maggior parte della giornata lì dentro ad esercitarsi a leggere, a parlare ad alta voce, a scrivere con una calligrafia più leggibile e a farmi discorsi abbastanza esilaranti, ma con quel modo di fare quasi ossessionante – lo adoravo.

Tutti i giorni, al mattino, lo trovavo vicino al mio letto, seduto sul pavimento, con gli occhi arzilli e un sorrisone grande a guardarmi, per dire solo "Buongiorno, Bo"

E poi parlavamo, mentre lui faceva colazione con me nella mia stanza.

Tipo una mattina, abbastanza strana. Stessa cosa: m'aveva dato il buongiorno e poi siamo rimasti nella mia stanza per parlare un po'.

"Che ti ricordi qualcos'altro?"

Si fermò dal mangiare, aggrottando la fronte. Pure da seduto torreggiava su di me in modo seriamente preoccupante. "Non lo so, intendo... Qualcosa, ma non so cosa" – bofonchiò, e poi tornò a masticare un pezzo di pane.

"Che stai leggendo, ultimamente?" – gli domandai, sfregandomi un occhio col dorso della mano.

Il suo sguardo si fece un po' cupo, e abbassò il collo. "La stessa cosa della scorsa volta" – sussurrò, sporgendosi per prendere un libro.

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