(Atto sei) – Ti vedo, eppure non riesco nemmeno a distinguerti. Ti stringo, eppure non riesco a sentirti.
(Parla Harry)
L'avevo sentita sbattere la porta, camminare coi passi pesanti verso il letto per accomodarcisi. Le mani le teneva premute sulla trapunta arancione dietro ai reni, mentre puntava la testa in alto e gli occhi pure.
Respirava male, poi. Un momento li faceva che non si sentivano, i singhiozzi, e quello seguente riempivano la stanza seguiti da un piagnucolìo sordo, attutito dalle mani sul viso rosso.
Non m'era mai capitato di sentire qualcuno piangere, prima di quella volta. E non avrei mai voluto che accadesse. Mi ritrovai a stare dentro alla mia stanza, con la luce spenta e la finestra appannata – sarebbe stata spalancata se non avesse piovuto – mentre mi chiedevo come reagire. Raggiungerla e guardarla ancora, o stare solo ad ascoltarla senza che lei se ne accorgesse?
Il fatto è che mai riuscii a trovare modo di starle lontano, né nella sua felicità, né nella sua tristezza – per quest'ultima, ancor di più. E se avessi conosciuto il motivo a quel tempo, io, lei e tutto ciò che ci guardava avremmo affermato che erano sentimenti a entrambi sconosciuti. Un po' estranei a quelli che eravamo. Io, perché di sentimenti mai ne avevo sentito parlare; lei, perché li conosceva, solo che loro non le avevano mai rivolto la parola.
In realtà era notte. E già di giorno la mia, di camera, era poco illuminata; di notte non vedevo a un palmo dal mio viso e riuscivo a distinguere solo i rumori.
Come quelli che, dopo pochi istanti dai suoi sussulti un po' soffocati, si facevano vivi al piano di sotto, con voci maschili indistinguibili che sbraitavano parole confuse.
E poi lei prese a piangere davvero.
La sentivi che si lasciava proprio andare, con le lacrime grandi e pesanti sulle guance e la voce strozzata in versi interrotti, brontolii a soste. Me la gettò addosso, la tristezza, e mi convinse a raggiungerla. Quindi aprii lentamente la porta e la scorsi ad asciugarsi gli occhi con la maglietta rossa – che le stava pure tanto bene.
"Bo" – la chiamai con un po' di timore, la voce aveva fatto un soffio.
Fui sicuro di essere stato sentito quando, tutto d'un tratto smise di piangere forte, addrizzandosi. Solo che non riusciva proprio a fermarsi, e allora faceva solo più piano.
Me la sentivo così distante, in quei momenti. Me la sentivo sempre distante; quando la fissavo dalla sedia al letto eppure sembrava che io fossi ancora seduto sulla terra bagnata e lei lontana metri e metri in quella casa. Quando la toccavo e sembrava di attraversare solo uno specchio d'acqua, perché la mia carezza la sentiva poco e niente. Quando la stringevo, e mi sentivo di circondare solo me stesso, o che lei, tra le mie braccia, non ci fosse nemmeno.
"Bo" – e di nuovo, non volle guardarmi. Si rifiutava di farlo, perché il sorriso che mi aveva garantito era svanito affogato in un lago di lacrime blu scivolate dai suoi occhi del medesimo colore.
"Mi guardi?" – le domandai, avvicinandomi un altro po'. "Per favore".
Tirò in su col naso. "Che c'è?" – la voce era tutta un tremolìo. Mi sedetti sulla sedia, con le mani incrociate sul grembo e la schiena appiccicata allo schienale, mentre abbassavo e alzavo gli occhi di tanto in tanto.
"Piangi" – risposi ad un certo punto.
Abbozzò un sorriso, che sparì subito. "Sì" – disse.
Annuii. Dopo poco, "Perché?"
Si strinse tra le spalle, avvolgendo con le mani i gomiti. "Per una cosa stupida" – sussurrò, passandosi il dorso della mano sugli occhi.
"Me la dici?"
"E' una cosa stupida, Harry, non è interessante"
"E dài, me la dici?"
"Harry"
Sospirai. "Io le cose non-interessanti te le dico sempre, però"
Ridacchiò, assottigliando gli occhi. "Ti garantisco che sono molto interessanti, le cose che dici tu" – mi rimbeccò.
"Ti garantisco" – dissi. "Che le tue cose lo sono di più".
Si incrociò le braccia al petto, schiacciando le labbra. Poi mi fece segno di sedermi di fianco a lei, sul letto, battendo la mano sul posto dopo di lei. Così feci e mi incurvai un po' con le spalle per guardarla meglio.
"Il mio papà" – cominciò, guardando il pavimento. "A volte tende ad alzare un po' la voce, forse l'hai pure sentito. Diciamo che ogni tanto mi dice cose che non pensa davvero, perché" – si passò le mani tra i capelli. "Perché non lo so, in realtà. A volte lo fa e basta"
"Che ti dice?"
Sospirò, mentre il labbro inferiore le tremava visibilmente. Singhiozzò, stringendo una mano a pugno. "Cose orribili, che mai sarei arrivata a pensare" – singhiozzò.
Ancora riprese a piangere, solo più silenziosamente. Non lasciava mai che una lacrima raggiungesse il mento, le toglieva prima e se le asciugava sul jeans, di continuo.
E io che potevo fare? Ero lì, con le mani in mano, a guardare il pavimento mentre, di fianco a me, ci stava lei che piangeva. Che era triste. Che non stava bene, non si sentiva bene nemmeno a livello fisico, quelle parole le avevano bastonato le ginocchia, e l'avevano fatta cadere.
"Bo" – mormorai.
Lei si girò, accarezzandomi un braccio. "Vai a dormire, è tardi e ti sto tenendo sveglio, scusa"
"No no!" – dissi subito, mettendo una mano sulla sua. "Non ce la faccio a dormire" – aggiunsi. "Magari continui a piangere, e non mi piace né sentirti né vederti piangere".
Sorrise, sospirando. "Tanto mi passa" – e mi guardò, pizzicandomi una guancia. "Nasone".
Ridacchiai, mentre lei mi toccava un po' il naso. E rideva pure lei, quel tanto da farle sparire le lacrime dagli occhi lucidi.
Si sentiva un odore di umido piacevole, quello della terra bagnata. La finestra ancora socchiusa, fuori tutto buio e il rumore leggero e lontano dei treni sulle rotaie. Stavamo seduti sul letto e lei s'era calmata, stava finalmente respirando regolarmente mentre mi tirava i capelli in un codino, ci giocava e poi li riscioglieva.
"Comunque sono lunghi" – e alzò due ciocche. "Domattina te li taglio, non vanno bene".
Dopo aver discusso un taglio adeguato da fare, lei sbadigliò e si infilò nel letto, dandomi la buonanotte. Io mi richiusi nella mia stanza, stendendomi supino sulle lenzuola fresche. Mi ritrovai a socchiudere gli occhi, poi a riaprirli perché Bo mi scuoteva il braccio e mi chiamava.
"Sarebbe un problema se dormissi qui?" – abbassò lo sguardo. "E' una nottata un po' triste, questa" – mi guardò appena.
Mi spostai quel tanto e poi le feci segno – con movimenti assonnati e gli occhi mezzi chiusi – di stendersi sul posto che avevo ricavato per lei. Come si stirò le gambe, mi diede di nuovo la buonanotte e chiuse gli occhi, girandosi dalla parte mia un po' rannicchiata.
Passarono alcuni minuti, mentre io la guardavo, e poi si fece più vicina. Un altro po', e ancora. Fino a toccare con la fronte il mio petto, il braccio attorno al torace per stringermi e il respiro caldo sulla pelle.
"Stai dormendo?"
"No"
"Ti dà fastidio?"
"No" – sorrisi.
Forse per il suo coraggio, o per la necessità di protezione che tutto il suo corpo urlava di avere, mi feci forza e appoggiai una mano dietro alla sua schiena, col mento sulla sua testa.
Restai con gli occhi aperti temendo che a lei non andasse bene quella posizione, fino a quando non mi sentii ancora più stringere da lei.
"Ti dà fastidio?" – le domandai.
Scosse un po' la testa, abbracciandomi. "No".
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Latĕbra
FanfictionTutto solo, circondato d'abbandono, a mugolare suoni indistinti, mentre a fatica si dondolava e un po' piangeva. Tutto solo, circondato d'abbandono, a scaldarmi il cuore - - povera creatura; lì mero, senza affetto. copyright reserved to @thescient...