Atto ventisette - Perché anch'io morivo dalla voglia di parlargli.
Nella cucina si respirava un'aria poco salubre, la densità dell'ossigeno sembrava essere aumentata e continuava a farlo man mano che respiravo, riempiendomi i polmoni di una strana inquietudine che sapevo bene sarebbe stata insopportabile a lungo andare – ma non ne feci un dramma, masticando furiosamente la mia mela ormai dilaniata.
Lui, sul ballatoio intento a farsi il fegato amaro per via delle mie esclamazioni crude che non gli stavano bene, si lasciava cadere con le spalle ricurve in avanti, i gomiti premuti sulle ginocchia e le mani incrociate, in uno strano atteggiamento, una preghiera pigra e svogliata. Se ne stava lì, comunque, in silenzio.
Harry era un uomo estremamente fragile ma al contempo testardo, non riusciva a mischiare le due cose e questo, in contrasto col mio carattere tanto forte – forse troppo per lui – faceva esplodere le lingue e i denti in parole che nessuno dei due avrebbe voluto sentirsi dire dall'altro.
D'un lato era anche necessario, se avessi finto anche solo una volta di farmi andar bene qualche suo bizzarro favoritismo sapevo bene che presto lui l'avrebbe trasformato in abitudine, e col tempo avrebbe assunto le sembianze di uno scoglio che, non importa quante volte andavo a sbatterci contro, non si smussava, non si spostava neanche di un singolo millimetro. Allora discutevamo, e siccome era il passatempo che sembrava dilettarci maggiormente, lo facevamo spesso.
Il problema, però, è che nonostante tutto io lo conoscevo e lui conosceva me. Lo sapeva come prendermi, e questo giocava un ruolo così fondamentale in quella guerra tanto mascherata – noi la chiamavamo amore, pensate. Se avesse anche soltanto voluto farmi del male non avrebbe esitato a schiacciare i miei tasti dolenti, e io – perché purtroppo ero fatta così – avrei risposto alle sue frecciatine con coltelli affilati rigirati più e più volte nella carne, fino a toccargli le ossa.
E lui lo sapeva, quindi non si permetteva neanche di provare a farmi sentire in colpa.
E quando non ci provava, ero io a farmi sentire in colpa; Harry era, nonostante tutto, la creatura più pura ed eterea che avessi mai potuto vedere e conoscere, il solo privilegio di averlo con me, poterlo toccare, parlargli e sapere che mi considerava nello stesso modo in cui io consideravo lui mi dava quello schiaffo di buon senso che mi faceva ripetere come un'ossessa non fare stronzate, Bo, qui non si parla di chiunque.
Allora tornavo sui miei passi, lo guardavo da lontano e lui faceva lo stesso. Finivamo col spiattellare qualche parola e far finta che tutti e due fossimo indifferenti a quella sconsideratamente piccola lontananza che ci divideva – che ci bruciava lo stomaco a forza di protenderla per l'orgoglio.
Quindi, quando mi alzai per sedermi sul divano e guardare la tv, non mi sorprese vederlo lanciarmi un'occhiata, con la testa appoggiata sui palmi delle mani e le scapole accentuate sulla sua schiena.
Era una presa in giro, cercavamo soltanto di recitare la nostra parte bene abbastanza da far credere all'altro che non stessimo fingendo solo per farci del male a vicenda – quando in realtà facevamo male solo a noi stessi.
Andar contro la propria cupidigia si rivela sempre essere straziante; si fa a pugni con la dignità e spesso si vince, ricevendo in premio quella agrodolce soddisfazione.
Brighton era nuvolosa, quella mattina; il clima estivo cominciava a sfumare in uno strano ed insicuro manto grigio, che portò pioggia. L'umidità non fece che peggiorare l'angoscia che già mi aveva attanagliato il corpo, intorpidendo le ossa fino a ricoprirle per farne un mucchio di resti impigriti.
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Latĕbra
FanfictionTutto solo, circondato d'abbandono, a mugolare suoni indistinti, mentre a fatica si dondolava e un po' piangeva. Tutto solo, circondato d'abbandono, a scaldarmi il cuore - - povera creatura; lì mero, senza affetto. copyright reserved to @thescient...