Atto ventidue.

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Atto ventidue - L'amore è quando non riesci a dormire perché finalmente la realtà è migliore dei tuoi sogni.


Mai come allora la notte assunse un aspetto così triste.

Conosco solitudini diverse: prima di conoscerla, l'emarginazione era fenomeno voluto e causato dall'inetto modo di vivere con il quale nel tempo avevo imparato a convivere.

Ma saperla lontana da me, mentre nella mia testa un guazzabuglio di emozioni di sconquassava tutto il cuore e le lacrime mi sciupavano le guance, era una sensazione nuova e più struggente.

La felicità che lei era in grado di darmi creava quasi dipendenza: dal momento in cui la si è provata, non ne si può fare più a meno. È matematico, logico, completamente comprensibile e del tutto innegabile.

Ciò che appesantiva d'angoscia quella mia mancanza e tremenda nostalgia era ricordare ogni secondo, ogni minuto che io le avevo praticamente creato disturbo per tutto quel tempo. Non riuscivo e mai sarei stato capace di perdonarmi un tale errore.

Il modo in cui mi aveva confidato come, durante quei mesi, io fossi stato solo un peso mi fece quasi cadere il cuore giù nello stomaco. Un fastidioso gelo rovente mi attanagliava le gambe e lo stomaco, le mani tremavano ancora accanto ai miei fianchi spossati e leggermente ricurvi, come la mia schiena.

Mi trascinai per le strade durante tutta la notte, cercando di spiegarmi almeno in parte cosa effettivamente avessi sbagliato: qualcosa o qualcuno può rappresentare quasi un contrattempo in quale caso? E in quale modo?

Come avrei potuto migliorarmi?

Avrei fatto qualsiasi cosa; sentivo la pressante necessità di stringerla tra le mie braccia, di accarezzarle le guance e di guardarle le labbra, mentre aspettavo il momento in cui si sarebbero socchiuse per afferrarle e stringerle fragilmente e con timore tra le mie.

Erano piccole cose di cui non potevo fare a meno, e non sarei riuscito – ne ero certo – a passare un'ora sola in più senza di lei.

Ma come sarei potuto tornare nella sua casa, con quale faccia? Con quale coraggio?

"Sei solo?" – una voce biascicò alla mia destra, sotto un lampione giallo che mi offriva una visione della strada abbastanza nitida – o forse no – della strada.

Inizialmente feci finta di non aver sentito, ero piuttosto spaventato – più o meno... Non sapevo cosa fare in quelle situazioni – e continuai a camminare, cominciando a rimproverarmi mentalmente per aver deciso di camminare da solo in mezzo alla strada a quell'ora tarda.

"Non rispondi?" – e ridacchiò, tenendosi ancora alle mie spalle. "Dài, mica ti mangio..." – aggiunse.

Era una voce femminile, impastata e quasi titubante. Decisi ancora di non girarmi e di aspettare che magari si stancasse di chiamarmi o di farmi domande.

"Hey, non è carino ignorarmi così" – fece ancora. "Girati un po', facciamo due chiacchiere"

Per com'ero allora – un idiota privo di buon senso e lungimiranza – quasi le credetti e mi fermai, voltandomi. Era una ragazza, uhm... Credo potesse avere su per giù vent'anni, o qualcosa in più. Capelli scuri, e coperta appena da un vestitino striminzito e sgraziato, non mi piaceva per nulla.

"Posso aiutarti?" – domandai con la voce roca, ero stanco e spossato.

Lei si afferrò un labbro tra i denti, avvicinandosi quel tanto che le bastò ad appoggiare le mani sul colletto della mia t-shirt. Si alzò sulle punte e appoggiò la testa sulla mia spalla, con le labbra accanto al mio orecchio. "Non lo so, puoi?" – sussurrò, cominciando a far scivolare le mani lungo il mio petto.

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