Atto diciassette.

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Atto diciassette - Piena d'angoscia, paura, piena di così tanto torpore osseo e muscolare mi stavo dirigendo verso di lui, senza sapere minimamente cosa aspettarmi.


Siamo tornati a casa solo quattro giorni dopo. Abbiamo salutato Gemma, Londra ed Harry mi ha confessato sottovoce che in quel posto non ci voleva più stare – il che mi sembrò parecchio strano, ma non volli domandargli nulla.

E allora, dopo essere saliti sull'auto dei miei genitori ci lasciammo tante luci alle spalle – partimmo di sera – e guardando con sguardo assente la strada che sarebbe stato il nostro panorama per due ore e forse più. Il piano era tornare all'appartamento, prendere le nostre cose e poi rimetterci in viaggio verso casa.

Eppure io lì proprio non ci volevo andare, era qualcosa di... Semplicemente imprevedibile. Quel ragazzo, Harry, il mio ragazzo – chiamiamolo così – l'aveva battezzato mia madre coi suoi occhi dolci, con le sue domande un poco invasive. Ma solo lei l'aveva visto. Quella casa non lo conosceva, né il cielo chiaro l'aveva mai visto davanti a qualcun altro.

E quel qualcun altro era mio padre. Piena d'angoscia, paura, piena di così tanto torpore osseo e muscolare mi stavo dirigendo verso di lui, senza sapere minimamente cosa aspettarmi. Ed Harry, al mio fianco, sapeva mezza della storia che altro non era se non il mio tentativo di scagionare quella mia ingiustificata – a voi, cari lettori – codardia, che presto sembrò diventare agli occhi altrui fobia.

Fobia di violenza, fobia di rifiuto, fobia di ripercussione morale. Divenne in poco tempo motivo d'insonnia. Ci furono giornate in cui mi chiedevo per quale dannato motivo mi meritassi certe tristezze, certe punizioni. Un'ammenda che se mi fosse stata soltanto esplicata per un minuto io avrei forse compreso di più... Ma, in fin dei conti, non sarei stata capace comunque d'accettarla.

E per quanto tentassi d'evitarla, quella scena, sapete... Il solo immaginarla, nella mia mente sapevo che il giorno sarebbe poi giunto ed io, della mia codardia, avrei potuto farne solo oggetto di scarno personale per punirmi ulteriormente da sola.

Le sue dita lunghe fecero capolino sulla mia gamba, mentre teneva il viso girato giusto per non guardarmi ed evitare la mia reazione. Dopo aver cambiato la marcia spostai la mia mano sulla sua, accarezzandola lentamente con il pollice.

"Tutto okay?" – fece lui, voltandosi leggermente.

Aggrottai le sopracciglia e sul mio viso c'era l'ombra d'un sorriso poco sincero. "Perché non dovrebbe?" – lo ripresi, quasi in un misero tentativo di far sembrare lui quello strano.

"Sospiri da venti minuti e batti le dita sul volante di continuo. E non mi senti quando parlo" – aggiunse in un mormorìo verso la fine.

Piombai come di nuovo sul sedile. "Stavi parlando?" – gli domandai, e la sua mano si spostò leggermente mentre annuiva. "Oh accidenti, mi dispiace" – dissi mortificata, avvolgendo le dita della sua mano tra le mie. "Ero con la testa tra le nuvole, ero davvero troppo distratta"

"L'avevo intuito" – ridacchiò, appoggiando la testa sul sedile. "Non sarai troppo stanca? Potremmo fermarci così fai una dormita e-"

"No no!" – dissi subito, fermandolo anche con la mia mano. "Non serve assolutamente, sono piena di energie" – e con la voce cercai d'enfatizzare la mia affermazione.

Lo vidi annuire poco convinto. "Se ne sei così sicura" – e poi tacque.

Dopo un'ora e mezza – il viaggio era andato piuttosto bene, senza problemi di tempistica o tecnici, per fortuna – eravamo già nell'appartamento che raccattavamo vestiti e cose varie per infilare tutto in valigia e partire di nuovo.

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