#11# Apatia

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Derek

La camera degli ospiti sembrava avere una temperatura polare.
Strano. Di solito era sempre calda ed accogliente, soprattutto nelle ultime settimane.

Ma forse era il freddo che avevo dentro a non farmi provare più nulla.
C'era silenzio, troppo silenzio in quell'ambiente in penombra, dove rimanevo solo io con i miei pensieri.

"È solo di passaggio."

Joe Heyden aveva riversato in quelle parole tanta verità, di cui poi ero perfettamente a conoscenza; eppure era stato come ricevere uno schiaffo in faccia. Con un guanto di ferro.
Forte, deciso, pesante. Un macigno che si aggiungeva a quelli che già mi portavo dietro.

Mi rigirai l'mp3 di Sam tra le mani, alzando il volume quando partì la canzone che mi aveva fatto ascoltare la notte dei tuoni.
Ogni dannata volta che dovevo tirare fuori dalla testa un bel ricordo, partivo automaticamente dal mio arrivo in casa Heyden e da lei.

Avevo avuto un infanzia schifosa, un'adolescenza ancora peggiore e una formazione emotiva pressoché inesistente.
Solo un accenno di calore derivante da un paio di occhi verdi brillanti.
Mi rigirai a pancia in giù sul materasso, affondando la faccia nel cuscino. Grugnii esasperato, provando quell'astio e quella rabbia che erano soliti montarmi dentro quando le persone mi punzecchiavano.

Heyden era stato un vero stronzo, peggio dei Veterani. Nadya in confronto era un angelo...

Chiusi gli occhi e cercai di affondare le mani più sotto al cuscino, per bloccare quell'attacco di tremarella isterica, che se no sarebbe sfociato in un intenso incontro di pugilato con un sacco da box.

Ero un tipo che scaricava tutto fisicamente, che devastava e che si devastava, solo perché sapere che le cose andavano in frantumi era il bisogno più impellente di tutti.
Una propensione all'autolesionismo puro. Quello che faceva più male.
Quando partivano le risse cercavo di sentire qualcosa, qualsiasi cosa, diversa dalla rabbia o dall'irrefrenabile voglia di cancellare.
Ma niente.

Rimanevo con le nocche rotte ed insanguinate, in un angolo. Senza alcun rimorso di coscienza.
E mi ripetevo che era normale; perfettamente logico che non sentissi nulla, poiché mi avevano addestrato in quel modo. Perché ero cresciuto senza gli stimoli affettivi più comuni.

Non avevo mai detto "papà", o "mamma". Non avevo mai avuto fratelli... non di sangue...
Mai una famiglia, mai amici, mai sostegno o persone che mi incoraggiassero a non mollare. Nemmeno una visita quando mi avevano messo in infermeria dopo una missione andata male; ero uscito dopo tre settimane, con una lunga cicatrice sul costato e una patina di ghiaccio sul cuore, ancora più spessa di prima.

Non sapevo esattamente quanto passò dal momento in cui mi ero rintanato in camera... L'mp3 aveva fatto susseguire un bel po' di tracce e la mia mente si era piano piano svuotata, portandomi giù. Dentro al nulla.

Joe aprì la porta di scatto e fece il giro del letto, venendo dal lato verso il quale ero girato.

Si schiarì la voce: - È fuori da troppo. -

Aprii lentamente un occhio e sollevai di poco la testa: - Quindi mi sta chiedendo di lavorare...? Di andarla a cercare e riportarla a casa, magari ritornandomene in camera appena varcata la porta. -

Non dovevo farlo e lo sapevo, ma la tentazione di sbattergli la sua cafonaggine in faccia era tanta per poter resistere.
Joe storse le labbra in una smorfia, assottigiando lo sguardo e sfidandomi con il suo orgoglio arrogante. Era esattamente il ritratto per eccellenza dei figli di papà, quella categoria sociale che mi stava sul culo.

- Non ti sto chiedendo di lavorare. - Mandò giù con fatica il boccone amaro che aveva dentro, probabilmente perché stava per dire qualcosa a lui scomodo. - Ti sto dicendo che la tua AMICA, MIA FIGLIA, è fuori da troppo. Non sta mai in giro a quest'ora perché è troppo buio ed ha solo una felpa addosso. -

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