IV

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***

Canzone Capitolo: Never Too Late; Three Days Grace

Era assurdo notare come, tutti qui, cadessero nella banalità più programmata, ovvia.
Niall e Rose erano andati a fare una passeggiata - baggianata -, ora probabilmente si trovano uno attaccato all'altro, a scambiarsi effusioni per le quali i loro genitori li avrebbero prima ripudiati, diseredati e poi, mandati a matrimonio.
Tanto si sapeva che, erano praticamente stati promessi l'un l'altro, come nel '700.
E io invece, affatto attratto dalle labbra rossastre e fine di Rose, continuo ad ascoltare in lontananza la radiolina di Matt Joy e, la cacofonica notizia che tutti temiamo.
La guerra è in atto, ma noi, siamo al sicuro, questo lo sappiamo.
Che poi però ne muoiano più dei nostri che dei loro è un ingiustizia!, per carità, non tolgo niente agli italiani che andiamo ad aiutare o alla nostra cara madre patria, ma ora basta!
Io l'arma in spalla mica la prendo! Io continuerò gli studi, manco sotto forza me ne andrò da qui -per morire-.
La guerra non è fatta per me, io che amo i risvegli fatti di carezze, le colazioni tranquille e le mattinate di dolce ozio, no, affatto, non sono fatto per la guerra, magari piena di sangue e fango, no, affatto.
Per dio, io, in guerra mai!

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Facile dire che, arrivato casa la mamma mi ha accolto con urla (portate da qualche bicchierino di troppo), e il babbo invece, la ignorava continuando a fumare e leggere un giornale vecchio settimane, sporco bastardo! - ora tocca me sorbettarla.
Le preparo un thé al ginseng e poi mi dirigo nella mia stanza, aspettando che arrivino notizie, oggi mio padre avrebbe lavorato ad una causa importante, sarebbe dovuto partire a breve per New York, e io sarei rimasto per un mese intero, qui, a casa, con la mamma e le sorelle che tornavano solo la domenica dopo la settimana di studi a Parigi con la nonna.
Che poi, di intero ci sarebbe rimasto solo il mese, io no.

«Lou! Lou? Lou?!», le urla isteriche della mamma mi fanno rivoltar le budella e anche il cervello, che si sta impegnando a studiar Anatomia - ma chi me l'fa fatto far di non trasferirmi? Ho vent'anni santo Cristo!

E poi, Miss Elizabeth, per la prima volta senza bussare si fionda in camera mia, che per poco non mi cade addosso mentre mi alzo quasi indignato.
Le guance rosse, il respiro accaldato e l'uniforme da sguattera tutta in disordine.

La vedo l'agitazione negli occhi suoi, e allora mi affretto a ricompormi e chiedere
«Cosa?»

«Sua madre la vuole di sotto, il parroco è arrivato.»
E mi ha chiamato dunque, per quale assurdo motivo..? Vuole che io gli bestemmi in faccia? O che mi cali le calze dinanzi a lui?

«Deve scendere!» La voce di Elizabeth si fa più presente.
Io non devo proprio far nulla, ma la mamma ubriaca ed agitata non è mai una buona cosa, perciò scenderò, voglio proprio vedere chi è quel bisbetico che ha scelto di venire a vivere qui.

Scendo le scale strascicando i piedi, la moquette mi lancia scosse ai pantaloni lunghi e grigi, la camicia è poco aperta sul petto e rimane infilata malconciamente dentro le calze, e poi portando una mano ai miei capelli, mi cadono gli occhiali a terra, che la mia vista già si era appannata a vederlo lì, nel mio salotto.
L'angelo di Michelangelo in piedi, nell'uniforme con le braccia incrociate, stona con i muri color cioccolato, e i mobili al caramello.
Una ragazza accanto a lui, il denim a vita alta la stringe ai fianchi stretti, (mai qui, in questa assurda cittadina e in questo assurdo quartiere avevo visto una ragazza con dei jeans), i capelli di un biondo troppo finto, le labbra rosse. Puttana - l'avrebbe definita la mamma, se solo, non fosse stata la figlia del parroco.
Ecco, appunto, il parroco è a pochi passi accanto a me, con i miei occhiali in mano, e me li porge, che schifo! dovrò disinfettarli.
Nell'abito nero e un colletto bianco, e la moglie che già ciarlare con la mamma di qualche povera vicina, o magari a fingersi politiche, --patetiche le donne non capiscono nulla;
Io rimango fermo un pochino, e poi ci presenta, come se mi interessasse niente di loro.

«Parroco Des Styles, La signora Anne Styles, Gemma ed Harold.» E io che lo chiamavo Harr-

«Preferisco, Harry.» Le sorride, un sorriso troppo evidente, finto, tirato.
Ma comunque troppo bello, che quasi mi acceca, come un raggio di sole.

Rimango imbambolato, con gli occhiali che dondolano nella mia mano destra, e poi la mamma che come sempre cerca di scartavetrarmi le budella.

«Loue, ma cosa fai lì imbambolato? Su tesoro! ...Sempre con la testa tra le nuvole, oh che sbadato..» E ridacchia con Anne, Gemma e Des dirigendosi in salotto.

Che Harry è rimasto davanti a me e non degna nessuno di uno sguardo, tranne il qui-presente.
Le braccia incrociate e la camicia spiegazzata, i capelli rimangono un po' lunghi, mamma me li avrebbe fatti tagliare dandomi del finocchio (quale sono, ma lei questo non lo sa).
E mi fissa, insistentemente, io non lo vedo manco bene, che gli occhiali li tengo in mano e sta vista del cazzo non collabora.
Sento caldo, e sono diventato rosso, ne son sicuro.

E lui continua a fissarmi, con un sorriso monco, o meglio, un sorriso che cerca di reprimere; le labbra sono unite, strette, rosse, belle, e un angolo è alzato.

Sta' qui che mi sorride, e io mi infilo gli occhiali, finalmente lo vedo, in tutte le sue perfezioni, 'ché di imperfezioni ne ha poche, e io le ignoro.

«Allora, Loue, quello che facciamo fuori casa rimane lì.» Quasi ghigno, mi diverte la sua preoccupazione camuffata da superbia e forzato controllo, io non ci riuscirei così bene, per niente.

«Di cosa parli, Harold?» Mi diverto un poco, mentre digrigna i denti.

«Della canna e della segata.» La parola sega(ta) è così bella detta da lui, peccato che non parli di ciò che voglio io.

«Che tu sia un tossico non mi interessa, e i miei sanno che sego.»
Si morde le labbra, che non sia un riflesso incondizionato?

«Non sono un tossico.» Quasi ringhia e io indietreggio, cadendo.
Lui mi si avvicina e quasi mi mangia il mio, di respiro, troppo vicino, eppure, lo spazio c'è e vorrei fosse colmato.

«Oh, Loue, così imbranato, proprio una checca.» E parlando le sue labbra toccano le mie, la schiena mi duole contro le scale, è così vicino.
I suoi occhi che si sciolgono come ambra pura.

E per un momento anche lui sembra una checca, così vicino, che le labbra me le morde tra poco.

Poi si alza e ridacchia, tutto di lui si incurva, labbra soprattutto, divenendo fine, e due fossette, che gli scavano una parte di pelle.

Delle rifilature bluastre si fanno presenti sul collo rosato, la giugulare si muove e i muscoli si tendono mentre le clavicole vengono scoperte dai capelli lunghi tirati indietro.
Le mani strette alla barriera di legno a cui io sono praticamente appeso, reggendomi, le vene tirate e sembrano ferro, con tutta la sua pelle scolpita in marmo.

«Louì!» E le bambine corrono verso di me, il loro accento francese oramai marcato mi distrugge i timpani, sorelle di merda, nei momenti meno opportuni tornate a casa?

«Louì, Louì, Louì.» Canzona andandosene, ma i pantaloni divenuti stretti glieli vedo, le labbra più rosse, e gli occhi chiari, come fosse stato davanti una lampada ardente che gli consuma via il colore, le pupille ingrandite, come si fosse fatto un'altra canna. Tossico

o meglio, una Checca Tossica

UEU

oddi, è lungo sto capitolo, già si sono fatte le undici.

vorrei chiarire che tutta la satira e le battute provocatorie o magari sessiste di Louis son fatte apposta, so perfettamente che le donne possono partecipare alla vita politica e sociale, ma lui è educato in modo diversa dal padre quindi non prendetevela a male.

in più conosco le regole grammaticali, ma nel mio modo di scrivere inizio spesso le frasi da una subordinata senza alcuna reggente perchè sta a rappresentare i pensieri di Louis che iniziano alla cazzo senza né un principio né una conclusione ben precisa.

vi amo, stellinate e commentate.
Lé vi salutava, già dorme qui sul letto💧.

Adiaforía ( Larry Stylson )Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora