Prologo

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Mi volto un'ultima volta verso quel letto, verso quella realtà che sto per abbandonare e conto i secondi che spendo a osservarla sdraiata fra quelle lenzuola, le spalle leggermente scoperte, le mani strette attorno al tessuto morbido e in viso un'espressione rilassata, ingenua e inconsapevole.

È così bella che sembra una visione, e fino a un paio di minuti fa ero accanto a lei, le sue piccole braccia attorno al mio busto e la testa appoggiata al mio petto mentre il tepore del suo corpo mi riscaldava l'anima.

È buio, ma la luce artificiale proveniente dai lampioni della strada che filtra dalle tende mi permette di vedere perfettamente cosa sto lasciando indietro, ovvero tutto.
Tutto il mio mondo.
Tutto ciò che conta davvero è accoccolato sotto quelle lenzuola ancora impregnate del nostro amore e di ciò che è e non sarà mai più.
La sto lasciando andare perché questa è l'unica scelta che mi è stata data, e non posso riprendermela né cambiarla.

Il mio corpo, ormai abituato ad ignorare il dolore che lacera la mia anima dall'interno, si muove automaticamente verso la porta di quella stanza, mentre in una mano tengo la valigia.
Per un attimo temo che il troppo tempo speso in silenzio davanti a quella soglia mi abbia trascinato con sé, facendomi perdere di vista la vera meta, nonché ovunque tranne che qui.

Prima di richiudermi la porta alle spalle lancio un'ultima occhiata e lei è ancora lì, immobile e serena, ma in quella sua quiete sembra solo volermi urlare di restare, e quella senzazione di pesantezza che avverto so già che sarà un ricordo che mi tormenterà per il resto dei miei giorni.

Esco da quella stanza stregata e mi guardo attorno con cautela, premurandomi di non avere incontri indesiderati per il corridoio.
Non che sia una cosa probabile, visto che sono a mala pena le tre del mattino.

Scendo l'ampia scalinata della villa a passo felpato, il mio peso quasi inesistente nella tranquillità che regna indisturbata nell'enorme abitazione.
Nessun guardiano, almeno non nella zona d'ingresso quando vi giungo.
Non appena sono entrata in questa casa ho individuato quattro telecamere in questa parte: una su una delle due colonne di fronte alle scale, una nell'anticamera del soggiorno, una nel soggiorno stesso e una all'inizio del corridoio d'ingresso.

Passo davanti ad ognuna di esse, consapevole che al mattino le mie immagini rimarranno registrate ma a quel punto sarò già altrove.
Deglutisco quando arrivo alla porta di ingresso, sapendo che questa è la fine.
Uscendo da questo portone sono consapevole di scoppiare una sorta di bolla che finora mi ha protetta.
Milicevic e i suoi non possono raggiungermi al momento, finché sono in questa casa.
Il capo sa che sono qui, ma agire per prendermi non sarebbe una mossa comoda con tutto ciò che potrebbe scaturirne.
Tuttavia, non appena metterò piede fuori dalle mura individueranno le mie coordinate e mi troveranno in meno di un'ora.

Perciò sì, se voglio approssimare, ho un vantaggio di soli venticinque minuti.
E tutto ciò per colpa mia e delle clausole di quel maledetto contratto.
Per questo poso la valigetta accanto ai miei piedi per un attimo, avendo calcolato anche questo aspetto del piano.

Tiro fuori da un taschino della cintura delle necessità un coltellino lungo dieci centimetri e spesso tre millimetri e qualcosa, lama in perfetto stato e punta altrettanto.
Poi prendo una garza dalla valigetta e del nastro adesivo medico.
Alzo la manica sinistra della giacca e osservo la parte interna del mio polso, cercando di ricordare il posto esatto.
Calcolo un centimetro e mezzo a sinistra rispetto alla vena visibile, finalmente sicura che sia quella la zona precisa.

Afferro il manico del coltellino con presa salda e appoggio la punta ghiacciata sul polso concentrandomi e rilassandomi affinché il lieve tremore delle mie dita si affievolisca.
Dopo un respiro profondo, affondo la punta nella carne, aprendo un taglio che poi vado ad allargare.
Digrigno i denti per non far uscire alcun lamento di dolore dalla mia bocca e mi trovo a misurare la mia tempra molto attentamente.

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