Capitolo 56: Via d'uscita

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Jesse

"Jesse datti una mossa, questi ci ammazzano!" Martin grida come un matto mentre mi precede precipitandosi di corsa fuori dallo scantinato in cui si è appena giocata la partita di poker. Ride isterico, ma ormai so che è soltanto una sua reazione di folle paura di fronte alla rovina in cui è precipitato un'altra volta, gettandovisi alla cieca e seguendo solo la sua stupidità.

È stato un cretino; ma come gli è saltato in mente?! Si è fatto beccare a contare le carte e quando i soci di Asso se ne sono accorti, Falco non ha esitato a sbatterlo contro il muro e a farlo piegare in due a furia di ginocchiate nello stomaco. Di nuovo. Sono intervenuto, procurandomi qualche livido, ma guadagnando almeno una possibilità di scampo per entrambi.

E adesso Martin è vittima dell'adrenalina che gli ha dato alla testa ed è davanti a me, mentre continua ad intimarmi di correre più veloce e di sbrigarmi. Costeggiamo il perimetro posteriore dell'edificio della palestra fino al cancello di metallo che delimita l'area riservata ai dipendenti del campus; fortunatamente non è troppo alto, quindi riusciamo ad arrampicarci e a scavalcarlo, ma Falco e gli altri uomini ci sono alle calcagna e tra loro c'è anche lo stesso Asso. Attraversiamo di corsa il parcheggio dei dirigenti, ma non abbiamo via d'uscita, se non fare irruzione negli uffici amministrativi della West Coast University. Nella frazione di secondo in cui realizzo tutto ciò, sento il panico salirmi fino al cervello, ma non faccio in tempo a comunicare a Martin che siamo fottuti, perché lui invece sa bene cosa fare: lo vedo avvicinarsi ad un Hammer, che spicca tra le altre auto di rappresentanza parcheggiate intorno a noi, e noto che tira fuori un coltello e prova a forzare la portiera.

"Ma sei impazzito a rubare una macchina?!" gli urlo contro, ma lui ha quel sorriso pazzo che non vedevo da tempo e che, sommato alla situazione in cui ci troviamo, mi mette ancora più paura, perché so che Martin è il primo ad essere un pericolo fuori controllo. "E' di mio padre! E dai Chicago, non fartela sotto!" insiste ridendo, mentre sale al posto di guida. "Non lo so Martin, mi gioco la libertà vigilata!" replico in preda al panico, ma noto che anche Asso e i suoi soci sono riusciti a scavalcare la recinzione e ora lui si sta dirigendo verso di noi attraverso il parcheggio, con un passo tranquillo e un ghigno malvagio dipinto sul volto, come a ricordarci che siamo in trappola.

Non ci penso un secondo di più e salgo in macchina sul sedile del passeggero; Martin ha già messo in moto, con un'abilità tale che mi fa pensare a quante altre volte si sia già impadronito di un'auto non sua, e parte ancor prima che io abbia chiuso la portiera, con un'accelerata dallo stridore infernale. Soltanto quando è troppo tardi capisco cosa ha intenzione di fare, ciò che effettivamente è inevitabile e che costituisce la nostra unica possibilità di salvezza: sfonda con il muso dell'Hammer la cancellata del parcheggio chiusa da un catenaccio e percorre ad una velocità folle il viale principale del campus. Martin continua a gridare isterico, in preda all'adrenalina. Ma cosa vuole fare: fuggire dalla WCU e scappare all'infinito?! Dove vuole andare? "Che cazzo hai in mente?" esplicito a voce alta tutte le domande che mi stanno affollando la testa, ma non riesco nemmeno a concludere la frase che un'auto della vigilanza ci sbarra la strada e io potrei giurare che, considerata la follia che leggo nei suoi occhi attraverso l'oscurità della notte, Martin abbia intenzione di andarci contro; invece inchioda di colpo, catapultandomi in avanti e costringendomi a piazzare le mani contro il cruscotto per impedire al mio naso di frantumarsi.

Cazzo, questa scena è successa già fin troppe volte! Penso tra me, mentre le orecchie mi fischiano e mi impediscono di sentire quanto accade intorno a me. Martin è pietrificato sul sedile di guida al mio fianco e stringe ancora il volante tra le dita, tanto che le sue nocche sono bianche e quasi trasparenti.

Gli uomini della vigilanza ci fanno scendere dall'auto con modi persino più brutali di quelli dei poliziotti. Uno di loro riconosce Martin come il figlio del Presidente del Consiglio Amministrativo e scuote il capo con una smorfia di disgusto. Io non pronuncio una parola, ormai già rassegnato. Il tempo mi sembra fermarsi ed è una questione di minuti, se non di secondi, prima che veda precipitarsi verso di noi un uomo in giacca e cravatta, con i capelli impomatati e pettinati con la riga laterale. È un uomo distinto, ma ha un espressione dura, gelida e soprattutto molto, ma molto severa e, quando scopro che si tratta del padre di Martin, capisco il perché, anzi forse non lo biasimo neppure.

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