Capitolo 35: Domani è un altro giorno

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1 mese dopo, Chicago  

Joey

Odio il freddo e questo è proprio il periodo più gelido dell'anno nello Stato più gelido d'America. Mi strofino le mani l'una contro l'altra per non perdere la sensibilità tattile e sbatto i piedi a terra affinchè le gambe non mi si ghiaccino, mentre mi stringo nel mio Moncler per riscaldarmi.

"Bimba sei proprio sicura di volerlo fare?" mi ha detto Danny, quando mi ha accompagnata a LAX ieri sera, per prendere un aereo diretto a Chicago. Mi scrutava preoccupato, mentre il mio sguardo vagava impazzito da una parte all'altra dell'enorme aeroporto, in procinto di lasciare la California per la prima volta nella mia vita; ma quando ho incrociato i suoi occhi, Danny ha sorriso nel vedere la mia determinazione: "Non ti ho mai vista così decisa e ho sempre saputo che sei la persona più coraggiosa, quindi adesso va là fuori a lottare per ciò a cui tieni. Chiamami per aggiornarmi e soprattutto se hai bisogno di me; io prenderò immediatamente il primo volo per venire ad aiutarti e riportarti indietro se le cose si metteranno male" mi ha promesso e io conservo quell'incoraggiamento nel cuore, sperando possa aiutarmi a non arrendermi.

Le sue parole riecheggiano ancora nella mia mente, mentre sono ferma sul bordo del marciapiede, in questo isolato malfamato della città con il più alto tasso di criminalità negli Stati Uniti, avvolta dall'oscurità tipica delle notti più lunghe di Gennaio. Devo ammettere che sono piuttosto spaventata nell'osservare donne svestite camminare sull'altro lato della strada, aspettando di salire a bordo di qualche auto scura che si ferma davanti a loro. Diversi ragazzi mi hanno avvicinata per offrirmi fumo o droga, ma si sono allontanati senza fare storie quando ho rifiutato. Del resto sono una stupida incosciente a restare qui immobile, aspettando che il coraggio cada su di me dal cielo, costringendo le mie gambe a muoversi. Sono atterrata in mattinata e ho vagato per la periferia di Chicago praticamente tutto il giorno, chiedendo in alcuni locali e negozi se conoscessero la famiglia Carter, basandomi sulle poche informazioni che ho di Jesse e che Ben è riuscito a ricavare da lui in questi mesi.

E ora eccomi qui: davanti alla porta di ferro nero scrostato di questo seminterrato, al di là della quale ho saputo dovrebbe esserci la persona che ha significato tutto per me, pur essendosi fermato così poco nella mia vita. È passato un mese da quando Jesse se ne è andato e da allora io ho vissuto le giornate in bianco e nero, privata di qualsiasi emozione, ma mossa unicamente dalla voglia di pianificare questo viaggio, che mi avrebbe permesso anche solo di rivederlo e soprattutto di ricevere le spiegazioni che penso di meritare. Questa è stata l'unica ragione che mi ha fatto andare avanti e quando le lezioni sono state sospese per l'inizio delle vacanze invernali, un paio di settimane fa, ho capito che era il momento giusto per partire. Lo so, devo essere pazza: ho fatto tutto questo per una persona di cui ho scoperto non sapere nulla e a cui io invece ho dato ogni cosa nel corso di pochi brevissimi mesi. Eppure in quel poco tempo Jesse è riuscito a cambiare la mia vita: mi ha permesso di cominciare a vivere e se c'è una cosa che so per certo è che ora non ho nessuna intenzione di smettere. Amarlo è stato come compiere il peccato più dolce del mondo, come precipitare nel vuoto trattenendo il fiato senza sentire la necessità di ossigeno; è stato così intenso che si è consumato in un istante, lasciandomi con la consapevolezza che tutto è cambiato e avendo fatto del suo amore il mio miglior rimpianto. Non so dove io abbia trovato l'iniziativa per farcela: non ho mai viaggiato sola e non mi sono mai allontanata dalla California; non ho mai saputo cavarmela contando solo sulle mie forze e purtroppo molte situazioni lo hanno dimostrato; mi sono sempre sentita debole e una vittima. Eppure ora invece sono una guerriera e sento che nulla potrebbe fermarmi, perché per la prima volta ho qualcosa per cui combattere.

Faccio un respiro profondo e picchio con il pugno chiuso contro la porta, non sapendo cosa aspettarmi di trovare al di là di essa. Dopo qualche secondo un energumeno pelato, con una folta barba mi apre: indossa dei jeans neri e una maglietta a mezze maniche nera attillata, incurante dell'aria gelida che soffia nella sera. Mi squadra confuso: "Dolcezza, devi esserti persa: questo non è il posto per te" mi avverte, ma io trattengo il fiato e lo sorpasso fulminea, mescolandomi alla folla che riempie l'ampio scantinato dal soffitto basso e claustrofobico e con le pareti grezze in cemento armato. Ci sono grida soprattutto di uomini, ma anche di qualche giovane donna; tutti sventolano le mani in aria e tengono strette tra le dita alcune banconote, rivolti verso il centro della stanza: leggermente sopraelevata rispetto al pavimento c'è una gabbia al cui interno due uomini si stanno picchiando a sangue. Uno sferra un pugno sul mento dell'altro, il quale cade a terra senza rialzarsi, mentre un terzo conta fino a dieci battendo il palmo della mano a terra e tutti esplodono in un boato di esultanza. Tento di portarmi sempre più avanti e, aiutata dal fatto che sono minuta, riesco a sgattaiolare attraverso la folla fino a raggiungere le prime file, tanto che vengo spinta contro la gabbia e, nella frenesia generale, sono costretta ad aggrapparmi alla rete metallica che la delimita per non cadere. L'altro uomo, rimasto in piedi all'interno del ring, ha le mani ricoperte di nastro adesivo impregnato di sangue, indossa solo un paio di pantaloncini ed è a torso nudo. Non faccio in tempo a notare i tatuaggi che gli ricoprono il corpo, perché, quando alza lo sguardo e incontra il mio, vengo pietrificata da due occhi grigi, attraversati da un mare in tempesta, intravisti attraverso il ciuffo di capelli biondi che gli ricade sul viso. Non riconosco quello sguardo allucinato, quasi assassino, che mi spaventa, costringendomi a schiudere le labbra sconvolta, mentre mi porto una mano al petto. La rabbia e l'aggressività che vedo in quegli occhi infiammati sono disumane e furiose e io realizzo di non aver mai avuto paura di lui fino a questo momento. "Jesse..." dico in un sussurro che si perde nel caos della folla, ma che posso giurare lui abbia sentito, perché è come se intorno a noi il mondo si fosse fermato. Vedo i muscoli tesi delle sue spalle rilassarsi leggermente, mentre il suo sguardo passa da sorpreso a grato a disperato, finchè Jesse non si volta di scatto, scende dal ring e si perde tra la fiumana di gente delirante che grida il suo nome.


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