30 Novembre. Parte II.

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• Agata •

Stava sdraiata sul letto, sotto il piumone, con il tablet tra le mani. Leggeva distrattamente su Wattpad, mentre pensava ai suoi genitori; di come l'avessero bevuta sulla storia che lei aveva raccontato.

La scusa che era caduta malamente per rincorrere il pullman della scuola l'aveva arricchita talmente di dettagli, da sembrare abbastanza verosimile.

Non avevano fatto tante domande e lei non aveva dato troppe risposte a quelle poche che le avevano rivolto. Sua madre l'aveva trovata già sotto le coperte, dolorante, al rientro dalla spesa del mercato, e quel poco che aveva saputo da Agata se l'era fatto bastare, come sempre, per non farla innervosire ulteriormente.

Non amava litigare con sua figlia e questa sua remissività provocava in Agata una profonda frustrazione.
Nel suo evitare lo scontro, lei non sentiva addosso le attenzioni che sua madre riversava nei suoi fratelli.
Capiva perfettamente che non era più una bambina, ma non c'era un limite d'età oltre il quale non si sentisse il bisogno di un abbraccio o di sentirsi dire ti voglio bene.
Aveva tanto bisogno di sentirsi amata.
Aveva tanto bisogno di sua madre.

Sentì suonare alla porta. Uscì da sotto il piumone e, solo con i calzini, si precipitò a scendere le scale per evitare che un ulteriore trillo avrebbe svegliato i gemelli. Li aveva messi a letto da un'oretta, dopo avergli letto la loro fiaba preferita:Biancaneve e i sette nani.

L'orologio della parete segnava le ventitrè.

Chi poteva mai essere a quell'ora  tarda? Strano. Il mercoledì sua madre non smontava così presto dal turno serale.

Forse avrà dimenticato le chiavi.

Guardò dallo spioncino e vide una massa di riccioli biondi che facevano capolino dall'occhio magico della porta.

Tito?

Non aveva mai osato bussare, nè tantomeno oltrepassare il vialetto d'ingresso.

Preoccupatissima aprì la porta, trovandoselo di fronte.

La prima cosa che la fece subito preoccupare era vederlo stare male, malissimo: tremava come una foglia, agitava spasmodicamente le mani e gli occhi rincorrevano qualcosa di sfuggente e invisibile.

«Tito... Tito... Dio santo...» disse a bassa voce, per non farlo agitare ulteriormente, «perché stai così? È successo qualcosa? Dimmelo!»

Uscì fuori, accostando la porta. Il freddo della notte oltrepassava la sua felpa, con impressa l'immagine di Justin Bieber, che indossava per dormire come suo vecchio ricordo adolescenziale.
I suoi piedi erano diventati due monoblocchi di ghiaccio, ma non voleva pensarci.

Tito aveva bisogno di lei. E vaffanculo al freddo.

«Vuoi entrare? Ti preparo la cioccolata calda che ti piace tanto?»

Il ragazzo le fece un segno forte di diniego con la testa, guardandosi con fare circospetto attorno.

«Prendili» disse, con la sua voce piatta e metallica, porgendogli un rotolo di carta tenuto stretto da un nastro, «e nascondili. Non li deve vedere nessuno. Promettimelo.»

«Okay, okay... Te lo prometto, Tito. Ma calmati, adesso!»

I fari di un'auto che imboccarono la stretta strada di campagna squarciarono l'oscurità che li circondava. La grande e costosa automobile rallentò, fino a fermarsi, davanti al suo cancello. Riconobbe la sua vicina, che abitava a cento metri di distanza abbassare il finestrino.

Si voltò per cercare Tito con lo sguardo, ma era sparito.

«Agata, tutto bene?»

«Sì ... Grazie, Dottoressa La Mantia. Ho sentito un cagnolino piangere, e sono uscita a controllare.»

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