8 Dicembre 2016.

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Le plumbee nubi di quella fredda mattina si erano trasformate in una pioggia fitta e scrosciante. Assordante, come biglie d'acciaio impazzite che battevano monotone contro ogni superficie.

Una pioggia che avvolgeva e ovattava l'ambiente intorno con il suo suono tedioso. Incessante.

Andrea e Virginia non se ne accorsero, chiusi nell'elegante e sterile studio medico, seduti a fissare attoniti il dottore Raphael Moncada.

Stava di fronte a loro imperturbabile, separato solo dalla lastra di cristallo di un costoso tavolo ultra moderno.
Col suo camice bianco, col suo sorriso perfetto, con la Montblanc che girava e rigirava nella sua mano, con stampato in viso una consapevole abitudine nel dire quello che era difficile ascoltare. Intollerabile accettare. Impossibile prevedere.

Virginia stringeva forte la mano di Andrea. Ascoltava dalla voce pacata e tranquilla di suo cugino, del suo medico, del suo confidente, un fiume di parole che le bruciavano l'anima; come sciara rovente. Si sforzava di canalizzare ogni singola parola. Di dominare le emozioni contrastanti che le scorrevano impetuose dentro.

Pronunciava, Raphael.

Parole, frasi, termini duri, pesanti come pietre di magma che le rotolavano dentro lo stomaco, come macigni:

biopsia, Tac, Pet, stadiazione, linfonodi, chemioterapia, effetti collaterali.

Spiegava:

di un linfoma maligno che si era preso con violenza un corpo. Il suo.

Chiamava:

Hodgkin.

Il linfoma di Hodgkin.

Tutto ruotava intorno a loro pur restando fermi, seduti, impietriti. Come statue di sale.

Andrea si volse verso la donna che più amava al mondo, e la voce rassicurante di Raphael gli arrivava lontanissima.

– Virginia... dobbiamo intervenire.

Sarebbe annegato dentro i suoi grandi occhi azzurri, cupi e agitati come il mare in burrasca. Sbarrati di paura, angoscia, d'incertezza. Due vortici di sgomento.

C'è il pericolo di metastasi.

Virginia non riusciva più ad ascoltare.

Andrea non voleva più stare a sentire.

Un momento dopo se la spinse contro, stringendosela contro il petto, affondando il viso contro i suoi capelli profumati di vento africo e mandorle di marzo.

Riempiendosi le narici del suo profumo. Riempiendosi il cuore di lei e dei loro ricordi. Riempiendosi le labbra del sapore salato delle sue lacrime.

Non riuscì a trattenerle, le sue. E pianse, promettendole dentro un sussurro: «Ti amo. E ce la faremo.»

***

Anastasia fissava l'elegante palazzo che le si stagliava di fronte, all'interno della macchina di servizio, bevendo il caffè caldo del suo termos. La temperatura quella mattina era abbastanza rigida e la pioggia battente non facilitava le cose, né la metteva di buonumore, meteoropatica com'era.

Minchia di friddu, pensò sofferente, stringendosi addosso il caldo piumino.

In Sicilia il freddo era poco tollerato e già vedere il termometro scendere al di sotto dei dieci gradi non era mentalmente sopportabile, per via della mancanza d'abitudine alle temperature rigide.

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