32 - Pacifiche annate

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Alle cinque di sera, la battaglia era persa su tutti i fronti.

Più di cento bocche da fuoco erano cadute sotto il controllo dei francesi.

Tutti i corpi d'armata di Przebyscevskij avevano deposto le armi, e le altre colonne (dopo aver perduto la metà dei loro uomini) ripiegavano con le truppe allo sfascio; quel poco che rimaneva delle truppe di Langeron e di Kutuzov si accalcava confusamente attorno agli stagni ed alle chiuse del villaggio di Ùjezd.

Alle sei, il fuoco nemico si era concentrato tutto in quella zona: i francesi avevano piazzato le batterie a metà strada tra l'altura di Pratzen e le nostre truppe in ritirata; e gli tiravano addosso.

Dochturov ed altri della retroguardia ricomposero i loro battaglioni per tentare di difendersi dalla cavalleria francese che li inseguiva.

Il giorno abbandonava il posto alla notte.

Gli stretti argini di Ùjezd avevano assistito al dispiegarsi di una lunga serie di pacifiche annate durante le quali il buon vecchio direttore della macina, con la sua cuffia di cotone, aveva gettato la lenza nello stagno mentre i suoi bambini, con le loro maniche di camicia arrotolate, si erano divertiti a tuffare la mano nel grande secchio dove guizzavano pesci argentati.

Sugli stessi argini, sotto agli occhi del paesano moravo con la cuffia di pelle e l'abito blu intenso, enormi carri avevano per lungo tempo viaggiato "al passo", portando al mulino ricche cataste di frumento e ritornandosene indietro con grossi sacchi di farina bianca la cui fine polvere volteggiava nell'aria leggera.

Ora invece il paesaggio mostrava un'affollata calca di uomini disorientati che si schiacciavano, si spingevano e finivano schiacciati sotto ai cavalli, alle ruote dei furgoni, o agli avantreni che trasportavano i cannoni.

Questi uomini calpestavano i moribondi per andare a farsi ammazzare qualche passo più avanti.

Ogni dieci secondi una palla o una granata piombavano, esplodendo, in mezzo a questa folla compatta; ed uccidevano, coprendoli di sangue, tutti quelli che si lasciavano raggiungere.

Dolochov (divenuto ufficiale) era ferito alla mano.

I suoi dieci uomini ed il suo comandante (a cavallo) rappresentavano tutto ciò che restava del suo reggimento.

Trascinati dalla folla si erano spinti fino agli argini gelati di uno stagno, dove si erano visti fermare dai cavalli che trainavano un nostro avantreno.

Una palla uccise un uomo dietro di loro.

Una seconda ne colpì un'altro davanti, ed il suo sangue schizzò su Dolochov.

La folla si precipitò in avanti presa dal panico, e si fermò di nuovo.

"La salvezza é tra seicento passi, rimanere qui é la morte!"

Questo é ciò che si dicevano tutti.

Dolochov (che era rimasto intrappolato lì in mezzo) finì proprio sul bordo dell'argine e ruzzolò sulla fragile coltre di ghiaccio che ricopriva la palude.

- Avanti! ...Fallo passare di qua!

Gridò all'uomo che guidava l'avantreno.

- ...Tiene!

Il ghiaccio effettivamente lo reggeva, ma scricchiolava e cedeva sotto ai suoi passi dando l'impressione di non voler attendere il peso del cannone e di quella folla per cedere sotto a quel soldato.

Tutti lo guardavano e si pressavano sul ciglio; nessuno però si decideva ad imitarlo.

Ad un certo punto il comandante del reggimento sul suo bel cavallo alzò il braccio ed aprì la bocca per parlare, ma improvvisamente una pallottola sibilò talmente bassa, al di sopra di tutte quelle teste terrorizzate, che queste si abbassarono.

Guerra e pace 3Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora