Parte 25 - Figli del Caduto

32 2 0
                                    

« Ascoltami, brutto scimmione... devi riprenderti... »

« Ugh... uhm, Liz? »

« ...perché stai per diventare padre! »

« Liz! »

Hellboy aprì gli occhi. La persona di cui credeva aver udito la voce non era là con lui. In effetti, era completamente solo, disteso sulla schiena sopra dei sassi. Il diavolo si alzò a sedere con cautela, ancora confuso per l'accaduto: la testa gli ronzava forte, come se si fosse appena ripreso da una sbronza, e sentiva male in varie parti del corpo. Tuttavia non aveva nulla di rotto: perfino la sua mano di pietra appariva intatta, rossa e invincibile com'era sempre stata negli ultimi sessant'anni.

Si guardò intorno, non appena gli occhi furono in grado di mettere a fuoco l'ambiente. Hellboy stava seduto su una riva sassosa, a pochi centimetri fuori da una distesa d'acqua; il cielo era più scuro che mai, e l'aria stessa sembrava impregnata di fumo. Alle sue spalle vi era solo una distesa di terra, tetra e piatta, interrotta pochi metri più avanti da un'imponente muraglia nera: essa si estendeva a perdita d'occhio in entrambe le direzioni, e si ergeva verso il cielo per decine di metri.

Di rado Hellboy aveva visto qualcosa che potesse definire inquietante... e quel muro era appena entrato a far parte di quella breve lista. Non perché avesse qualcosa di spaventoso nello stile, piuttosto per il senso di familiarità che sentiva trasudare da quella pietra nera: per lui era come trovarsi sulla soglia di un luogo che poteva chiamare casa, anche se non vi aveva mai messo piede prima d'ora.

« Uhm » borbottò, guardandosi nuovamente intorno. In giro non si vedeva nessuno: il resto dei Valorosi era finito chissà dove, dopo il naufragio del Titanic a cui era scampato. Sentì di non avere molta scelta in quel momento, così voltò le spalle al mare e s'incamminò verso il muro gigantesco. Aveva ancora le sue armi con sé, sigari compresi, perciò ne accese uno mentre si avvicinava a quella che sembrava una porta: essa era di pietra liscia, nera come il muro, ma sulla quale erano state incise delle parole. Era una frase in italiano arcaico... Hellboy non ebbe bisogno di interrogarsi sul suo significato, perché l'aveva già letta in passato svariate volte.

Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate.

Il diavolo sbuffò. Non occorreva essere dei geni né degli studiosi di letteratura antica per ricordare uno dei versi più noti dell'Inferno di Dante Alighieri: la parte finale dell'iscrizione sulla Porta dell'Inferno, l'ingresso per il "regno dell'eterno dolore"... forse il luogo in cui lui stesso era nato. Forse era per questo che si sentiva così a suo agio, laggiù, ma non lo avrebbe mai scoperto a meno di non proseguire. La porta aveva un aspetto massiccio: dubitava di poterla buttare giù con un pugno, perciò tentò innanzitutto un approccio educato; si avvicinò e bussò con la mano di pietra.

Non accadde nulla.

« Ovviamente » borbottò Hellboy, dopo un'altra boccata di fumo. « Ti aspettavi davvero qualcuno che dicesse "avanti"? Dio, che razza di... uh? »

Mentre parlava, la porta si era aperta, scorrendo verso l'interno con un gran fragore. Hellboy rimase senza parole, ma varcò la soglia dopo appena pochi secondi. E ciò che vide dall'altra parte gli provocò lo stupore più grande che avesse mai provato da quando aveva messo piede in quel mondo caotico.

L'inferno. Una sola parola, più che appropriata per descrivere lo spettacolo che aveva di fronte: una città rossa e tetra, dominata da fuoco, tenebre e dolore. Hellboy vide edifici e torri in ogni direzione, rossi come se fossero stati dipinti con il sangue; grandi colonne di fumo si levavano da vari punti della città, offuscando l'aria già pesante di per sé.

Interior DissidiaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora