1. Alissa

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Anche oggi esco da quella che dovrei chiamare casa, ma che non ho mai sentito come tale.
Il vento autunnale mi scompiglia i capelli, che tengo sciolti e mi cadono sul seno.

Ho diciassette anni, ma sulle spalle me ne sento come minimo quaranta, talmente ne ho vissute tante nella mia vita.

Anche oggi ho cercato di tirare fuori il meglio di me per attirare i ragazzi: vestitino fucsia scollato e corto, che se mi piego mostra molto più del dovuto, scarpe alte nere e mi sono truccata come tutti gli altri giorni.

Ormai è diventata un'abitudine per me. Ne sento il bisogno. Ho bisogno di fare questo, di svendere il mio corpo. Me lo merito. Ho bisogno di farlo per sentirmi a posto con me stessa, questo è quello che farò anche nel futuro. Me lo diceva sempre «Sei solo una puttana. Questo farai nella tua vita». Ogni volta stavo sempre peggio, mi sentivo lacerata da quelle parole. Eppure ora, che dovrei vivere la mia vita da adolescente normale, mi ritrovo a vivere con Mel e i ragazzi e a seguire ciò che mi disse lui.

È autunno, ma nella mia città fa caldo lo stesso. Mi dirigo verso la scuola e poco prima di entrare mi sistemo i capelli e faccio il mio solito ingresso. Passo in mezzo al cortile, camminando sul sentiero che lo attraversa e che porta all'ingresso della scuola, e come ogni giorno tutti si girano. Tutti mi guardano come se fossi un pezzo di carne da scambiarsi, sento già puzza di scommesse su chi riuscirà a calarmi le mutande per primo e io sorrido, o almeno tento di farlo.
Sorrido e vado avanti, senza curarmi delle occhiate poco caste che mi stanno rivolgendo i ragazzi. Sorrido senza pensare alla vocina nella mia testa che dice che è ora di cambiare. Che è ora di smetterla e di essere la vera me. Ma io non ci riesco, non voglio mostrare le mie debolezze alle persone e far crollare la corazza che circonda il mio cuore. Ho troppa paura che una volta caduta, sarà difficile ricostruirla pezzettino per pezzettino, nonostante non penso di poter affrontare cose peggiori di quelle che ho passato.
* * *
Anche oggi dopo sei ore di scuola vado verso casa, o quella che dovrebbe esserlo.
A scuola è andata come tutti i giorni: me ne sono fatta uno per intervallo più la pausa pranzo.

Dopo dieci minuti sono arrivata alla struttura in cui abito, ho mangiato e sono andata nella mia stanza.
Ora è arrivato il momento più brutto della settimana qua dentro, dopo la settimana in sè: la seduta con Mel.

Melissa è una donna bassa, smilza e nonostante la sua altezza potrebbe far pensare il contrario, è una forza della natura. Fa da mamma, psicologa, amica e sorella per tutti noi qui. Ci mette l'amore che una madre ha per i proprio figli e l'ammiro per questo.

Vado nel suo ufficio come ogni lunedì della mia vita qua dentro e lei è già lì ad aspettarmi.
Ci sono state delle volte in cui non mi sono presentata, perché non mi andava di esternare tutti i miei pensieri.
All'inizio non ci sono andata per dei mesi.
Ora però ho imparato che più mi esterno meno ci metto, quindi eccomi qui, ormai seduta sulla poltrona in pelle davanti alla scrivania di Melissa.

«Lissa, come va quest'oggi?» chiede Mel.

«Come tutti gli altri» rispondo secca. Le voglio molto bene, mi ha salvata dalla strada e poteva andarmi sicuramente peggio, ma non sopporto questo momento di psicologia.

«Sei contenta che tra cinque giorni è il tuo compleanno?» chiede cercando di rallegrarmi.

«Che bello, un altro compleanno passato in questo posto di merda. Ye.» dico con voce piatta.

«Cosa hai fatto?» domanda lei sempre con il sorriso stampato in volto, per andare dritta al sodo.

«Vorrai dire CHI mi sono fatta. Beh Jason, Luke e uno di terza mai visto prima.»

«Alissa, perché lo fai?» mi chiede preoccupata.

«Lo devo fare. Merito solo questo, sono una puttana.» rispondo con le lacrime agli occhi. Devo trattenermi, basta piangermi addosso, sono stanca.

«Alissa, una volta per tutte, vuoi dirmi cosa ti è successo?» chiede.

«Come se non lo sapessi. Hai un fascicolo pieno di scartoffie che raccontano il mio passato, perché vuoi sentirtelo dire?» le rispondo con tono brusco.

«Perché se lo dici ad alta voce ti sentirai meglio» dolce e pacata. Le credo però, forse smetterò di fare ciò che faccio. O forse no, ma tanto vale tentare.

«Vuoi sentirti dire che mio padre, Alfred Thompson, ha abusato di me da quando avevo sette anni a quando ne avevo quattordici? Che mia madre, al posto di proteggermi, si è suicidata perché si è sentita in colpa? Che ora mio padre è in carcere e che io vivo in una cazzo di casa famiglia? Ok va bene, te lo dico» sbotto e mi alzo. Forse non era l'approccio giusto, ma almeno ci ho provato. Non so se riuscirò mai a tirare fuori ciò che capitava ogni volta con mio padre, non voglio far riemergere quei ricordi oscuri.

«Ora posso uscire?» chiedo ormai alla porta. Melissa annuisce e io esco da quella stanza e anche dai miei pensieri.

Two is better than oneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora