Capitolo II

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La stranezza che percepivo nel mio stesso corpo era così tanta che dovetti chiedere un permesso alla responsabile. Sarei andata in piazza, seduta su una delle banchine di legno laterali e avrei osservato i passanti.

Osservare mi piaceva e mi donava un senso di tranquillità e spensieratezza.

Fortunatamente la mia postazione preferita era libera, così a passo svelto la raggiunsi.

Spalancati gli occhi, la mia mente cominciò a scrutare tutte quelle persone dai mille pensieri per la testa.

La mia vista fu prontamente attratta da una bambina con due trecce che partivano dall'attaccatura. Quei capelli mori ricordavano un po' i miei, eppure la mia chioma non aveva avuto altra acconciatura se non la solita: una fascia molto sottile, di un rosa pallido, che attorniava la mia fronte e una gran quantità di onde che raggiungevano le mie spalle.

Vedere quella treccia così ben fatta mi riportò alle mancate attenzioni di mia madre, fin troppo occupata dal duro lavoro di campagna. E un po' di rimorso nei confronti di quell'infanzia distaccata s'impossessò di me.

Poco dopo osservai una donna alle prese con un piccolo batuffolo di lana, che subito scoprii essere un fagottino di un paio di mesi. Il bambino cominciò a strillare e la madre, con la dolcezza di tutto l'amore che trapelava dai suoi occhi, iniziò a cullarlo con una nenia a me sconosciuta. Cullata anch'io da quella melodia, cominciai a non osservare più con gli occhi del corpo bensì con quelli della mente. Oramai c'eravamo soltanto io e quel suono incessante, e insieme ci accingevamo ad essere un unico grande complesso di emozioni. Trasportata da quelle emozioni chiusi gli occhi, mi rannicchiai su me stessa, e un forte calore si irradiò al mio interno. Era così intenso da scacciare la brezza autunnale che in quelle ore del pomeriggio tendeva a raffreddarsi ulteriormente. Fu soltanto quando questo calore penetrò violentemente nelle mie ossa che aprii gli occhi e mi accorsi delle due enormi pupille che mi stavano osservando.

"Mi scusi, non volevo spaventarla."

Il gigante, così ingombrante da occupare gran parte della banchina, era lì. E il suo tocco provocò in me per la seconda volta quella orrenda sensazione di inadeguatezza e calore bruciante.

"Se è scappata via per il mio aspetto, sarò pronto a farmi da parte ogni volta che lei lavorerà. Mia madre mi ha avvisato."

"E cosa le ha detto?"

"Troppe cose che una ragazza tanto piccola come lei non dovrebbe mai ascoltare."

La tristezza con cui aveva pronunciato quella frase mi impietosì a tal punto da posare una mano sul suo petto. Qualche istante dopo la ritrassi, bruciava come cenere ardente.

"Io sono venuto a scusarmi e lei mi tratta con ribrezzo? Le fa senso anche toccarmi?"

"No, non capisce... c'è qualcosa in lei che mi..."

"Che le fa pena e al contempo la terrorizza. Non ho deciso io di venire al mondo con queste dimensioni né tantomeno di essere guardato da tutti come fossi un mostro!"

Pronunciò queste parole urlando e nei suoi occhi si accese uno strambo luccichio. Presa ad osservarlo, non gli risposi.

Lui si alzò con strafottenza per andar via.

Ed io non riuscii a dirgli che tutto ciò che in lui non andava era in realtà una fiamma ardente che si ridestava al mio tocco.

Ulteriormente destabilizzata da quella discussione, decisi infine di andare a casa per preparare la cena. Poiché le sensazioni erano molto confuse e il tempo che mi separava dall'ora di cena era molto, dedicai trenta minuti alla mia solita conta accanto alla finestra.

Mi tranquillizzai.

Ma, raggiunti i 100 qualcosa mancava. Le mie iridi erano concentrate al massimo e si muovevano da una parte all'altra della camera per scovare l'ultimo, indispensabile, granello di polvere.

Dopo circa dieci minuti non ero riuscita a trovarlo. Non mi era mai successo. Da ben cinque anni ero sempre riuscita a contarne centouno.

Per la prima volta qualcosa mancava nella mia camera.

Un granello di polvere era scomparso chissà dove.

Con grande irrequietezza tornai in cucina per preparare la cena. Ma ero assente. Le mie mani agivano da sole, mentre la mia anima cercava di dare un senso a quella giornata.

C'era qualcosa che non andava in me stessa, questo lo avevo sempre saputo. Eppure lo scorrere del tempo, le abitudini e la crescita mi avevano resa un po' più simile a tutti gli altri.

Quella giornata, però, mi aveva catapultata in quella dimensione di stranezze di cui era stata fatta la mia infanzia.

Mentre la mia mente roteava tra tutti quei pensieri, mi avvicinavo ai fornelli per sollevare la pentola che ormai da un bel po' giaceva lì. Ma quando mi sporsi in avanti, il canovaccio legato ad un passante del mio vestito si adagiò sulla fiamma accesa. Istantaneamente il fuoco si propagò lungo tutta la cucina, costituita per lo più da strutture di legno.

Non sapevo cosa fare.

Venivo attorniata dalle fiamme e tutto ciò a cui riuscivo a pensare era quel profondo calore che cominciava a bruciarmi.

Non urlai, né mi impegnai a chiedere aiuto.

Semplicemente mi distesi sull'unico punto del pavimento ancora incolume dall'incendio e cominciai a osservare le fiamme e il loro lento attorcigliarsi su se stesse.

Fu in quel momento che lo vidi, quel piccolo e furbo granello di polvere. Il numero 101.

Sorrisi alla sua vista e subito dopo chiusi gli occhi.

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