Capitolo XV

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"Era il giorno di Pasqua del 1942.

Mio padre si era preso una pausa dall'incessante lavoro in campagna, degnandoci finalmente della sua presenza.

Quella figura abbattuta dal tempo mi faceva uno strano effetto. Non ero abituata a passare un'intera giornata con il mio papà. Non sapevo quasi nulla di lui, se non che alla sera il suo piatto preferito fosse la pasta con le lenticchie. Alle quali di tanto in tanto ci aggiungeva un poco di pane. E se il raccolto era andato bene, anche qualche sorriso a me e a mio fratello.

Non conoscevo di lui i pensieri, i desideri, la vita.

Non lo avevo mai visto nuotare, perché al mare ci portava la mamma.

Non lo avevo mai visto ridere di gusto, perché in fondo non c'era nulla da ridere.

Non lo avevo mai visto. Se non alla sera, mentre avvicinava il capo ricurvo sul piatto al centro della tavola.

Quel giorno, dunque, era festoso. Più che per la venuta del Signore, lo era per la venuta del mio papà.

Un'intera giornata con tutta la famiglia.

Scelsi dall'armadio il vestito della domenica, quello a fiori rosa e stretto in vita. Poi vestii mio fratello con i suoi pantaloni di un beige chiaro ed una maglia di cotone. Sembrava un principe, meritava d'esserlo.

Raggiungemmo l'uscio con qualche minuto di anticipo, lasciammo aderire le nostre spalle sugli stipiti e ci guardammo negli occhi. Io e mio fratello.

Quello era uno dei nostri giochi, guardarci finché uno dei due non scoppiasse a ridere.

Quel giorno perdemmo entrambi e cominciammo a sorridere con il cuore, più che con le labbra.

Qualche minuto dopo eravamo ancora lì a ridere del nulla, di quel nulla di cui volevo fosse fatta la mia vita. Poi scese nostro padre e, vedendoci piegati in due come dei folli, trasformò il suo viso in una smorfia. Vidi mio fratello accigliarsi per riuscire a decifrarla.

Mio padre prese a muovere ripetutamente il petto, mentre dalla sua cavità orale uscivano fiotti d'aria a tratti. Io e mio fratello capimmo.

Era il giorno di Pasqua del 1942.

E nostro padre stava ridendo."

Mi rigirai in un letto morbido e dal cuscino straordinariamente soffice. Sulle labbra mi si era dipinto un sorriso per il sogno che stavo facendo.

In quello stato di profonda beatitudine sentii un lieve prurito sulla punta del naso, così avvicinai entrambe le mani alle narici e cominciai a grattare via quella sensazione sconfortante.

Il prurito non si fece attendere e per la seconda volta dovetti compiere l'azione precedente.

Alla terza, sollevai un braccio per concedere uno schiaffo sferzato nel vuoto. Ma la mia mano colpì un volto.

Spalancai gli occhi in preda al panico e delle iridi grigie erano lì a fissarmi.

"Buongiorno, Priscilla."

La madre di Philos si portò una mano sulla sua guancia sinistra, lievemente arrossata. Poi mi sorrise, regalandomi una carezza.

Compresi l'errore appena commesso e prontamente mi scusai con lei, ma prima che potessi terminare la frase mi baciò la fronte con tutto l'amore materno che un po' mi mancava.

Voltai il capo verso la finestra alla mia destra e vidi il sole che timidamente si faceva spazio tra i tetti a spiovente di quelle case geometricamente disposte.

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