Capitolo XII

524 28 39
                                    

L'iniziale sensazione di imbarazzo fu soppiantata dalla profonda stanchezza fisica che quella lunga giornata mi aveva provocato.

Senza perdere altro tempo, percorremmo i pochi metri che ci separavano dall'uscio della casa di Phìlos. Dopo aver poggiato i nostri piedi su di un tappeto usurato dal tempo e dalle suole che fino a quel momento lo avevano calpestato, il ragazzo bussò per tre volte alla porta. Straordinariamente quella si spalancò senza mostrare alcuna figura che l'avesse aperta. I miei occhi impauriti e confusi cercarono quelli del mio accompagnatore, il quale ricambiò il mio sguardo con uno altrettanto interrogativo.

"Cosa c'è che non va, Priscilla?"

Disorientata dalla sua reazione, cominciai a pensare che in quel posto fossero tutti un po' fuori di testa. Così decisi di rispondergli per le rime, sussurrando le mie parole per evitare che qualche essere pericoloso ci ascoltasse per poi aggredirci.

"Chi ha aperto questa porta? Potrebbe esserci un ladro in casa tua!"

Phìlos cominciò a ridere di gusto, con le labbra morbide spalancate e gli occhi che perdevano liquido lacrimale. Era talmente divertito da me e da ciò che avevo appena detto, che rimasi per alcuni istanti disorientata. Infine tossì, si schiarì la voce e con l'indice mi indicò qualcosa sul pavimento della sua casa.

Un esserino, grande quanto il palmo della mia mano e trasparente come l'acqua del ruscello, era in piedi sull'uscio della porta. Mi osservava con degli occhioni spalancati per la sorpresa e lievemente amareggiati per la mia disattenzione. Aveva le fattezze di una bambina e l'abito a campana che aveva indosso rinforzava quella sua aurea di innocenza. Rassomigliava in tutto e per tutto alla mia piccola amica Reùma tranne che per un aspetto: a differenza dell'azzurro sgargiante dell'essenza del ruscello, lei era tinta d'arancio.

"Ti presento l'Anima della mia casa." Mi disse in tono solenne Phìlos.

Mi piegai sulle ginocchia e rivolsi la mia domanda a quella bambina tanto piccola quanto dolce.

"Come ti chiami?"

Una voce sottile e stridente, quasi come un suono di cornamusa, mi rispose.

"Kròkina, signorina."

Detto ciò, si fece da parte per lasciar passare me e Phìlos.

Entrammo nella stanza principale, la quale non spiccava per originalità né per bellezza. In fondo, si trattava di un'umile dimora in legno, con il mobilio essenziale e qualche candela sparsa per la casa ad illuminare l'ambiente.

Phìlos mi fece sedere al tavolo posizionato al centro della camera, servendomi una tazzina di un liquido grigiastro e piuttosto denso. Poco dopo mi spiegò che si trattava di succo di lumaca, quel rimedio contro i raggi solari di cui mi aveva parlato Deìno. Il sapore era aspro e difficilmente digeribile, eppure lo trangugiai tutto d'un sorso. Ero consapevole del fatto che quella stramba sostanza mi sarebbe stata utile per la mia permanenza ad Ekaton.

Una voce irritata e tagliente proveniente dalle mie spalle mi fece sussultare.

"Che donnaccia hai portato a casa questa volta, Phìlos?"

Il ragazzo si tinse di un rosso intenso, facendo oscillare le sue pupille tra me e la donna alle mie spalle.

Ferita da quelle parole mi voltai rapidamente, pronta a rispondere per le rime alla sua maleducazione.

Appena mi girai ed ebbi modo di scrutare quella figura imponente e grassottella, quella sussultò.

Con un balzo raggiunse la mia postazione e mi abbracciò intensamente, circondando le sue braccia al mio collo.

"Priscilla mia!"

Iniziò a singhiozzare, muovendo ripetutamente il petto e tirando su con il naso di tanto in tanto.

Ciò che mi destabilizzò, però, fu la mia reazione. Ricambiai l'abbraccio con la stessa intensità e nel profondo acquistai una nuova consapevolezza: sapevo di conoscere quella donna e quasi toccavo con mano l'amore materno che provavo nei suoi confronti.

Nella mia testa cominciarono a vorticare delle immagini inspiegabili e antiche, fotogrammi di una vita passata e felice. In alcuni di essi mi parve di riconoscermi, vestita come tutte le donne lì ad Ekaton e con un sorriso dipinto sul volto; in altri potei scorgere la figura di quella signora intenta a cucinare nella stanza in cui mi trovavo o impegnata a baciarmi le gote rosee.

Immagini inspiegabili di cui non ricordavo nulla, le quali mi danzavano nella mente in maniera confusionaria.

Non comunicai ai presenti il mio stato, piuttosto continuai ad abbracciare quella donna che mi faceva sentire a casa.

Durante quel lungo abbraccio avevo il viso che affondava nell'incavo tra il collo e la sua spalla destra. Dopo attimi interminabili decisi di sollevare il capo e ciò che mi si parò dinanzi agli occhi fu tremendo.

Dall'altra parte della stanza, eretto e con lo sguardo fisso nel mio, vi era qualcuno che conoscevo fin troppo bene.

Era vestito allo stesso modo dell'ultima volta, con un'espressione incattivita e le braccia attorcigliate tra loro davanti al petto voluminoso.

I suoi occhi grigi mi pietrificarono.

Il gigante, in tutta la sua ferocia, era lì ad attendermi.

CentounoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora