Conclusione- Parte 1

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Trascorsi i primi cinque giorni immersa in una nube di eterea inconsapevolezza, intenta a dimenticare ogni forma di dolore atroce subito negli ultimi tempi.

La mia mente si rifiutava di rielaborare razionalmente la violenza a cui era stato sottoposto il mio corpo, si rifiutava perfino di far riemergere i ricordi legati a ciò che più amavo nella mia vita.

Passavo le giornate attorniata da un alone di inebriante passività, vegliando di giorno e dormendo di notte.

Talvolta vagavo tra i campi incolti attorno al Tempio, impegnando la mente con astratti pensieri sul colore verde acre delle siepi, sulle loro sinuosità mosse dal vento e sul silenzio rimbombante della natura non affranta dall'industrializzazione. Avrei potuto star lì per ore intere, ma quando il sole stava per abbracciare la linea inafferrabile dell'orizzonte i Cento mi costringevano a rintanarmi nel Tempio per istruirmi con il loro sapere. Di sera, infatti, ero solita trascorrere del tempo con quelle cento voci che mi parlavano all'unisono da un punto indefinito dell'altare. Il mio sapere si accresceva di giorno in giorno, la mia memoria si nutriva sempre più di quelle conoscenze che un tempo m'erano appartenute e che ora stavano ripopolando i miei ricordi. A volte mi capitava di completare le frasi dei Cento, spinta da una forza di cui non ero in grado di darmi spiegazioni. Loro mi dicevano che si trattava di ricordi i quali, sollecitati dai loro insegnamenti, bussavano alle porte della mia consapevolezza per essere tirati fuori.

I momenti più entusiasmanti di quelle giornate trascorse nel Tempio furono le simulazioni della Cerimonia. Imparavo dove mi sarei posizionata, quali frasi avrei pronunciato, in quale modo le mie mani avrebbero dovuto porsi. Assomigliava ad una vera e propria liturgia cristiana, fatta di gesti incomprensibili e parole sussurrate al cielo.

Mi sentivo a casa.

Giunto il sesto e ultimo giorno, i Cento mi domandarono se fossi abbastanza pronta per la Cerimonia.

"Lo sono, miei cari amici. Voglio ristabilire l'ordine interrotto da Curio e lo farò a tutti i costi."

Mi risposero con un tono di voce chiaramente soddisfatto e compiaciuto.

"Ne siamo felici. Fra qualche ora l'atto sarà compiuto e ad Ekaton ricomincerà a correre il tempo, i Centini riprenderanno a conoscere la gioia di ogni fase della vita e nuove anime nasceranno in questo e nell' Altro Mondo. I bambini non saranno più solo bambini, così come gli anziani non saranno più anziani. Ogni esistenza percorrerà tutte le tappe della vita e raggiungerà, per ultimo, il mondo terrestre."

Le loro parole risuonavano nel mio petto con estremo orgoglio.

Sarei stata l'acqua che avrebbe permesso ad ogni pianta di germogliare, il ponte che avrebbe legato due mondi, il mezzo per ristabilire l'ordine necessario.

Sapevo che quel giorno rappresentava l'unica possibilità per dare un'opportunità di sopravvivenza ad Ekaton: trascorsa l'esatta ora in cui il mio corpo giunse sulla Terra, esattamente diciotto anni prima, nessuno avrebbe più potuto far nulla per la mia gente.

Avrebbero vissuto per sempre in un mondo con le lancette fisse a diciotto anni prima.

Quel mattino decisi di cogliere un paio di piccole margherite presenti sul retro del Tempio, per utilizzarle con grazia poche ore dopo, durante la Cerimonia.

Mentre ero piegata a sradicare ogni stelo dalla sua radice vitale, percepii dei passi farsi sempre più intensi e vicini a me. Impulsivamente mi nascosi dietro una delle massicce colonne del Tempio, in attesa di scoprire l'identità dell'intruso.

Alcuni attimi dopo una voce cupa per la preoccupazione urlò con l'intenzione di raggiungere ogni angolo del luogo, compresa la colonna dietro la quale mi nascondevo.

"Priscilla, sei qui?"

Avrei potuto riconoscerne ogni inclinazione vocale, a qualsiasi distanza, con qualsivoglia mezzo posto ad interferire con quel suono. Il suo richiamo mi solleticò il cuore che da ben sei giorni non aveva conosciuto altro che aridità. Il battito accelerato mi colorò le guance, potevo percepirlo dal calore che emanavano.

Non avevo bisogno di sporgermi dalla colonna per capire che si trattava di Philos.

Dapprima la tentazione di riabbracciarlo e di perdermi nel suo incavo tra collo e spalla fu tanto forte da voler mandare all'aria ogni piano per liberare il mio popolo da quella tortura.

Poi l'aridità sperimentata da alcuni giorni riprese il sopravvento, acquietò i battiti del mio cuore e ne raffreddò le fibre muscolari.

Rimasi immobile, al riparo di un grande masso marmoreo, ritenendo ingenuamente che quello sarebbe bastato a contenere l'incontenibile amore che provavamo l'uno per l'altra.

Percepii i passi di Philos farsi sempre più distanti, sempre più delusi dal fallimento della sua ricerca.

Io lasciai cadere al suolo le mie margherite, ormai sbriciolate dalle mie mani ansiose, e tornai nel Tempio. A spalle basse e con meno fermezza sul cuore.

Quando Philos era venuto a cercarmi non avevo sentito altri passi se non i suoi, dunque era solo.

Questo spiegava che non era riuscito a trovare mio fratello.

A quest'ora era sicuramente morto, torturato dal Gigante o provato dalla fame e dalla sete in qualche posto sperduto di Ekaton.

Mentre facevo queste considerazioni, mi rendevo conto che non stavo provando dolore... bensì rassegnazione.

Il mio cuore aveva inconsapevolmente già metabolizzato l'idea di non rivedere per il resto dei miei giorni mio fratello. Era riuscito a rinunciare all'innocenza dei suoi occhi prima di me.

Più nessuno mi avrebbe dato il buongiorno con un "ciao Saretta".

Più nessuno avrebbe potuto rimpiazzare mio fratello. Il mio sangue.

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