35: in cui un Albatros viene ucciso

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Fu come se la sua anima fosse divenuta vapore e si fosse liberata dalla gabbia corporea in cui era rimasta rinchiusa per ventisei anni di vita. Improvvisamente Kim si sentì priva di peso e di preoccupazioni, di desideri e bisogni fisici. Tutto ciò che percepiva era la propria vivida coscienza che si allontanava dal ponte della Emerald, dall'oceano Atlantico, da quella scomodissima situazione da incubo. I suoi pensieri si lasciarono trascinare come acheni di soffione dalla melodia che, se ne rese conto con serenità, proveniva dalle gole dei serpenti marini. Quei bellissimi animali cantavano, la loro lingua non era comprensibile, chissà quanto antica e aliena, ma Kim non aveva mai sentito suoni più belli e armoniosi. Se solo la sua anima avesse avuto una dimensione corporea, avrebbe pianto dalla bellezza, molto più di quanto non avesse già fatto precedentemente, ma ora riusciva a concentrarsi solo sul piacere dell'ascolto, così intenso, così sconvolgente.

Non sarebbe stata in grado di ricordare il momento in cui la canzone era divenuta decifrabile. Rammentò solo che, mentre le parole acquisivano un senso, davanti a lei sfumava, come un quadro abbandonato sotto la pioggia, un paesaggio dai mille toni di verde: una grande ed oscura muraglia vegetale a est, un minuscolo villaggio a ovest, nel mezzo un immenso oceano campestre, foglie di riso a perdita d'occhio, del colore dello smeraldo. L'aria era calda, tropicale, profumava di campagna. Era l'odore della casa dei suoi nonni, ma aveva anche qualcosa di completamente differente. 

Quello non era il Vietnam. Quella era l'India.

Il canto dei serpenti trasportò la mente di Kim oltre quel verde mare d'erba, fino a una delle capanne più belle. Al suo interno una donna piangeva, seduta dinnanzi alla finestra. Era bella, giovane, dalla pelle scura. Aveva lisci capelli neri avvolti in una treccia e un sari giallo come zafferano. Piange, le dissero le voci, perché non ha figli. Erano già trascorsi sei anni dal suo matrimonio e nessun bambino aveva benedetto l'unione con il suo sposo. Un vero peccato, sussurrarono le lingue biforcute, per una donna così bella.

La capanna si sciolse e i colori si rimescolarono. Il quadro tornò a comporsi e Kim riconobbe la vasta foresta, che questa volta incorniciava una strana, intima scena: un grande albero dal tronco intricato e dalle fronde larghe come una tettoia di difesa contro il sole, sotto cui si trovava la donna triste, in uno splendido sari rosso e la treccia di lucidi capelli color ebano che scompariva nell'opulenza di una gajras di candidi fiori di gelsomino. Non era sola: con lei c'era un sottile uomo dai capelli brizzolati completamente vestito di bianco. Davanti a loro, tra le radici dell'albero, si trovavano grandi e piccole lapidi di pietra grigia e loro sembravano intenti in una preghiera, un mantra.

La canzone si fuse con la mente di Kim, mentre piccole luci evidenziavano il disegno inciso su tutte quelle steli: serpenti. Donne e bambini serpenti, serpi intrecciate, cobra d'aspetto antropomorfo e dalle molte teste. Una luce verde rimase a pulsare pigra lungo la linea di un prosperoso busto femminile dalle lunghe e complesse spire che allattava due gemelli. Kim non aveva mai visto quelle strane immagini, ma le sue guide tornarono subito in suo soccorso.

Nagakal. L'ultima speranza. È tutto ciò che le rimane per avere un bambino. Non ci sono riuscite le preghiere agli dei e neanche la medicina dei francesi. Nulla può curare la sua infertilità. È una maledizione. Le rimane solo questo: un nagakal. Un'offerta votiva agli spiriti delle acque e della fecondità.

"Se questo non funziona" udì dire Kim all'uomo, che stringeva la mano della moglie, nonostante avesse parlato in tamil. "Non avrò altra scelta".

Gli occhi della donna si riempirono di lacrime e anche Kim provò dolore per quella frase, perché sapeva cosa significava, lo sapeva! L'uomo avrebbe fatto quello che doveva: avrebbe scelto il ripudio.

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