Sono le 22.00 di un fine settimana.
Ho la luce sfuocata del lampadario sulla faccia mentre con il naso all'insù osservo la parete scrostata.
Il riso cuoce a fuoco lento e le ore passano rapide uccidendo la notte poco a poco.
C'è sempre qualcosa da fare che mi leva l'ossigeno, la tranquillità.
Anche i visi amici diventano una realtà infausta e spietata.
Sì.
Tutto questo è disarmante, grottesco, come un bambino che urla al suo padrastro l'odio celato nel tempo.
È evidente.
Solo uno scalmanato può pensare che tutto va bene, quando quello che vuoi ti sfugge e vorresti il silenzio che non arriva, che si nasconde nella falsità di un sonno pesante.
Niente è più la priorità ormai, solo quello che rimane di me stesso, e che posso inseguire sempre più raramente.
Ora guardo fuori dalla finestra un gruppo di marocchini parlare in arabo.
Sembra che si vogliano ammazzare, ma inrealtà discutono civilmente.
Il riso si è bruciato.
Butto tutto, anche la pentola, stappo una birra e vado a letto.
Desidero essere l'ultimo uomo sulla faccia della terra mentre sprofondo tra le lenzuola e il cuscino.
La stanchezza è profonda, sta scavando profondi canyon dentro di me.
Non smetterà fino a quando non mi avrà svuotato.
Solo allora sarò libero e la mia essenza morta per sempre.
In giro tutto va avanti, e io rimango statico nel mio mondo, una dimensione a parte che sono sicuro esiste da qualche parte, ma io non vedrò forse mai.
Ora la notte morente scivola oltre la finestra.
Le do le spalle mentre ascolto un ubriaco cantare.
Mi lascio tutto dietro, finalmente.
Addio al mondo...
17/03/18
D.K.