"Quella volta che..."

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Quando non ti puoi fidare di nessuno, nemmeno di te stesso, quando quella sottile ma penetrante paranoia ti si insinua nella mente e nel corpo, avvelenandoli, quando quel rifugio che credevi sicuro diventa una trappola mortale, quando inizi a dubitare delle tue convinzioni e della fragile linea tra bene e male... Quando tutto questo accade, cosa ti impedisce di camminare sull'orlo del baratro...
E lasciarti cadere?

Cosa lo impedì a me?

Quella volta che mio padre salvò la vita al presidente degli Stati Uniti d'America ce la ricordiamo tutti, e continuiamo a raccontarla a tutti: amici, parenti, colleghi, compagni... nessuno può scampare a quel racconto. La versione però non cambia mai, così nemmeno i più scettici possono darci dei bugiardi: una sera di inizio luglio, circa verso le 9, mio padre, il brillante chirurgo Michael Davis, era stato chiamato per un intervento d'urgenza nella sala operatoria dell'ospedale in cui lavorava. Quando era arrivato aveva trovato il presidente agonizzante su una barella, circondato da almeno tre infermieri e altrettante guardie del corpo. Aveva sangue ovunque, e continuava a perderne. Gli avevano sparato.

Mio padre, senza perdere tempo, lo aveva anestetizzato, poi aveva estratto il proiettile, recuperato le schegge e suturato la ferita. L'effetto del colpo, che sarebbe dovuto risultare mortale per la sua vicinanza al cuore, era stato neutralizzato dall'efficienza e dalla fermezza del chirurgo, che era stato poi premiato dal presidente in persona con un riconoscimento ufficiale e un ringraziamento a nome di tutta la nazione.

Che gran emozione quel giorno! C'eravamo tutti, io, papà, mamma e mio fratello Jimmy. C'era una montagna di giornalisti e inviati televisivi, funzionari e telecamere ovunque; la cerimonia si era svolta nel giardino della Casa Bianca, alcune settimane dopo l'intervento. Il presidente aveva tenuto un solenne discorso su coloro che si impegnano ogni giorno per salvare la vita degli altri, e su quanto era grato a tutti loro; aveva poi invitato mio padre a salire sul palco con lui e aveva parlato degli avvenimenti di quella terribile notte, in cui aveva sfiorato la morte per un secondo prima di ritornare tra i vivi. La targa che donò a mio padre è appesa in cucina, in bella vista, a ricordarci sempre che c'è un eroe in famiglia e che dobbiamo essere orgogliosi di lui. Tutta l'America deve esserlo.

Di quel giorno ricordo anche le strette di mano, i saluti, le foto e il buffet, le pacche sulle spalle e le congratulazioni. E ovviamente l'emozione di essere stati invitati alla Casa Bianca, un luogo che molti ucciderebbero per vedere; l'agitazione che accompagnava il timore di fare brutte figure, timore per cui mio fratello era tenuto sotto la stretta sorveglianza di mia madre. L'orgoglio di essere figlia di mio padre.

So che avrei dovuto esserlo sempre, indipendentemente da quali e quante persone salvasse, e lo ero. Ma in ognuno di noi c'è quella piccola parte un po' superba che si gonfia ogniqualvolta succeda qualcosa di importante... E non capita tutti i giorni di salvare la vita di un presidente.
Mio padre aveva agito con professionalità e non si era lasciato sopraffare dall'emozione di essere responsabile della vita di un importante leader politico, di rappresentare il suo ago della bilancia; solo così era riuscito nell'impresa.

Questo è quanto è accaduto: una situazione straordinaria capitata a persone assolutamente ordinarie, persone che in condizioni normali non avrebbero mai potuto fare una così grande differenza per il proprio Paese.

O almeno così credevo.

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