14 - Proiettili

22 5 0
                                    

- State giù!

Simon si sdraiò sul divano, la donna si lanciò dietro ad uno dei braccioli della poltrona e io mi buttai sul pavimento, coprendomi la testa con le mani.
A pochi passi da me riuscivo a scorgere le schegge di vetro che un secondo prima componevano le finestre, mentre i proiettili continuavano ad attraversarne i riquadri vuoti, crivellando il muro alle nostre spalle.

- Al mio via, alzatevi e seguitemi! - urlò la donna per sovrastare il rumore degli spari. Noi la guardammo e annuimmo, lei afferrò la pistola, rimasta sul tavolino, e si concentrò sulle finestre, in attesa di qualcosa.

Io sobbalzavo ad ogni scarica di colpi. Il loro mitragliare potente e secco mi rimbombava nelle orecchie e nel corpo, pervaso da brividi fulminei.
Dopo un po' però quelle sensazioni divennero familiari, così tolsi le mani dalla testa e alzai gli occhi, per osservare la situazione attorno a me.
Quando lo feci, chiunque ci fosse fuori smise di sparare.

Nell'appartamento scese una quiete di stallo.

- Via veloci! - gridò in un sussurro la giornalista, alzandosi con riflessi felini e iniziando a correre verso il corridoio d'entrata con il busto parallelo al pavimento.
Io e Simon ci alzammo e la seguimmo, imitandola cosicché da fuori non potessero scorgerci.

La raggiugemmo nel corridoio: si era fermata davanti al lungo specchio a parete e lo stava toccando in vari punti.
Io e lui ci guardammo perplessi: che diavolo stava facendo?

Lo scoprimmo quando un rumore sordo ci fece voltare di nuovo. Una sezione dello specchio aveva ruotato su sè stessa di novanta gradi, rivelando delle scale che scendevano e svoltavano, sparendo nell'oscurità. L'aria era fredda e stantia, le pareti quasi umide e gli scalini parevano scivolosi.
La donna premette un interruttore e accese una lampadina attaccata al soffitto che non avevo visto.

- Queste vi porteranno sul retro dell'edificio. Prendete - esclamò lanciando a Simon un mazzo di chiavi. - Le chiavi della mia moto. È parcheggiata proprio di fronte alla porta dalla quale uscirete. Saliteci e sparite.

- E la macchina di mia madre? Non posso certo lasciarla qui - ribattei agitata. Sarei morta non appena fossi tornata senza l'auto, poco ma sicuro.

- Dovrai farlo se non vuoi morire. Vieni a prenderla domani. La troverai ancora. Fidati.

Non posso dire che mi fidai completamente e senza riserve, ma non avevo altra scelta. Annuii a malincuore, pregando che mia madre credesse alla storia che le avrei propinato e di ritrovare l'auto il giorno dopo.

- Ora andate. Veloci! Stanno arrivando.

Avevo una mezza idea riguardo l'identità dei nostri aggressori, ma di certo non sarei rimasta per confermarla. Mi voltai e seguii Simon, che si era già lanciato giù per le scale, rischiando più volte di scivolare sui gradini levigati dall'umidità.

Sentii la porta nascosta chiudersi alle nostre spalle, e la luce del sole sparire dietro ad essa. I rumori si attenuarono e scese un silenzio quasi sordo.

Le pareti del cunicolo erano piuttosto strette, claustrofobiche, e la luce delle sporadiche lampadine lasciava aloni d'ombra negli angoli di soffitto e muri laterali, creando un'atmosfera cupa e inquietante. Mi sentivo soffocare, sentivo le pareti stringersi su di me e l'uscita pareva irraggiungibile.

Ad un certo punto persi di vista Simon, e accelerai per raggiungerlo; così facendo scivolai e caddi rovinosamente all'indietro.

Emisi un gemito di dolore e mi rialzai a fatica. Probabilmente il giorno dopo mi sarei ritrovata un livido da qualche parte.

- Ehi stai bene? - esclamò lui, apparso dietro l'ennesima svolta. Io gli risposi con una smorfia che significava e poi sospirai. - Non ce la faccio più. Non c'è aria qui dentro.

- L'uscita è qui davanti - disse lui, e la sua affermazione portò aria fresca nei miei polmoni.

Ripresi a scendere, lo affiancai e insieme raggiugemmo l'uscita, una porta in metallo scuro ossidato provvista di maniglione antipanico. La spalancammo e la luce e il calore del sole ci inondarono di nuovo. Inspirai a pieni polmoni e sentii una nuova forza scorrermi dentro, mi rigenerai.

- Ecco la moto! - esclamò Simon, indicando una Aprilia RS 125 nera parcheggiata dall'altro lato del vicolo.

Corremmo verso di essa e lui mi passò l'unico casco che c'era, poi infilò le chiavi nel quadro di accensione e mise in moto.

- E tu?

Lui mi guardò con uno sguardo che mi annodò lo stomaco, e non per la paura. - Mettitelo.

Non replicai più. Me lo infilai e montai in sella, stringendo le braccia attorno al suo torace. Fu un gesto spontaneo, non gli chiesi nemmeno il permesso perché conoscevo già la risposta.

Lui girò un paio di volte l'acceleratore sul manubrio per scaldare il motore, poi tirò su il cavalletto e partì, puntando verso l'uscita del vicolo.
Prendemmo velocità in poco tempo e imboccammo la strada dalla quale eravamo arrivati senza rallentare, lasciandoci alle spalle il rumore secco degli spari che aveva ripreso a fendere l'aria.

Procedemmo spediti, con l'aria che ci sferzava la pelle e i vestiti. Quando ero uscita di casa non avevo nemmeno preso in considerazione l'idea di portarmi dietro una felpa, ma in quel momento rimpiansi la decisione: avevo la pelle d'oca sulle braccia già accaldate per la corsa, e con il continuo passaggio caldo-freddo potevo benissimo svegliarmi con il mal di gola, il giorno dopo. Almeno Simon mi riparava un po'.

Sapevo che erano pensieri del tutto superflui in una situazione del genere, ma la parte della mia mente ancora impostata a vivere una vita normale era abituata a formularli, e la cosa non mi dispiacque, così mi tenni stretta a Simon e li lasciai fluire.

All'improvviso percepii il suo corpo irrigidirsi: i muscoli del suo petto si tesero, irrorati, oltre al sangue, anche da una notevole quantità di adrenalina.
Accelerò di colpo e prese a guardare ripetutamente lo specchietto retrovisore, stringendo talmente forte le mani attorno al manubrio che le nocche gli divennero bianche.

Lanciai anche io un'occhiata allo specchietto, e ci vidi riflesso un grosso Suv nero che si stava avvicinando. I vetri erano oscurati, ma non mi serviva vederli per sapere che erano gli stessi che ci avevano sparato, pochi minuti prima.

Ebbi appena il tempo di avere paura che Simon sterzò bruscamente verso destra, infilandosi in una stradina con divieto d'accesso, troppo stretta per il Suv.

La macchina infatti proseguì dritto, come nulla fosse, mentre noi dopo uno slalom tra i condomini sbucammo in una delle arterie principali della città, ancora non molto trafficata. Ci immettemmo e sentii Simon rilassarsi appena, mantenendo comunque i sensi all'erta.

L'avevamo scampata bella, e sperai che anche la giornalista fosse riuscita a mettersi in salvo, in qualche modo.

Ora dovevamo capire chi fosse l'altra persona che mio padre aveva coinvolto, e farci aiutare da lei a vedere il quadro completo.

Stavo stilando una lista dei possibili candidati, quando davanti a noi vedemmo una grossa macchina nera con i finestrini scuri, e ci irrigidimmo entrambi. Io strinsi le mani più forte attorno al suo torace, e lui mi guardò nello specchietto e fece segno di diniego.
Non era il Suv.
Io gli sorrisi.

Dovevamo stare attenti. L'attacco di oggi dimostrava che le nostre ricerche non erano sfuggite al governo. Avevano lanciato un segnale d'avvertimento che erano certi non avremmo ignorato.

Dovevamo essere più cauti.

Ma non mollare. Quello mai. Nessuno di noi due l'avrebbe fatto.

Avevano ucciso mio padre perché non parlasse, avevano ucciso Andrew Louis per un qualche sadico schema ideato dai loro strateghi.

Se noi che potevamo farlo non ci fossimo eretti in difesa dei più deboli e delle vittime, passate e future, chi lo avrebbe fatto?

What can you see? - Il progetto γDove le storie prendono vita. Scoprilo ora