22 - Escape room pt. 2

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Svoltai l'angolo, inseguita dall'eco delle urla di mio padre, e corsi tenendo ben stretta la pistola nel pugno chiuso. Riprodussi mentalmente la pianta dell'ospedale e, raggiunta la seconda porta sulla destra, la aprii spingendo il maniglione antipanico, lasciando poi che si richiudesse dietro di me come le parole di mio padre.

Il cuore mi batteva forte per la corsa, l'agitazione e la paura, mi sentivo esposta e vulnerabile. Le telecamere registravano ogni mio passo, ogni mia mossa, come decine di occhi disposti per tutto l'ospedale, spie silenziose al servizio del nemico. Ero certa che qualcuno mi stesse osservando, in quel preciso istante, e che tenesse d'occhio anche Simon e papà: i due uomini che avevano tentato di ucciderci non potevano essersi mossi alla cieca, sicuramente qualcuno aveva comunicato loro la nostra posizione, qualcuno come il vicepresidente.

Dopo quest'inquietante considerazione ripresi a correre, scendendo a due alla volta i gradini delle scale che conducevano ad un piano inferiore e - sperai - anche al magazzino. Era trascorso del tempo dall'ultima volta che ero stata lì, escludendo le due visite inerenti alla nostra pericolosa indagine, e speravo che la memoria non mi tradisse.

Atterrai sul pianerottolo con un salto che rimbombò sbagliato nel silenzio tombale dell'edificio e, preda di una profonda inquietudine, mi affrettai verso una seconda porta, che dava su un corridoio più cupo del precedente. Lo imboccai, le luci al neon sopra di me che sfarfallarono come un film dell'orrore, anche se zombie assetati di sangue e demoni sarebbero stati alquanto più graditi degli uomini che pregavo di non incontrare. Ero sola, circondata da potenziali assassini: per quanto avessi avuto l'accortezza di prendere la pistola, di certo la mia non era stata un'idea brillante. Ma non potevo permettere che Simon morisse, e soprattutto non avrei potuto guardarlo mentre si dissanguava davanti ai miei occhi; una parte di me provava ancora risentimento nei suoi confronti, per come mi aveva drogata e consegnata al nemico, ma l'altra parte riconosceva che c'era qualcosa di insolito nella sintonia tra lui e mio padre. Reputavo mio padre un uomo saggio e acuto, un uomo con una spiccata capacità di giudizio, e lui pareva fidarsi di Simon perciò, anche se non completamente, anche io mi ritrovavo a fidarmi di quel ragazzo che nonostante tutto mi faceva ancora battere forte il cuore.

Mi concessi un sorriso quando avvistai l'ingresso del magazzino, esattamente dove ricordavo che fosse. Lanciai un'occhiata in entrambe le direzioni per assicurarmi di non essere seguita, e aguzzai l'udito per cogliere eventuali rumori di passi; siccome l'unico a rispondermi fu il silenzio che mi aveva accompagnata da quando mi ero separata dagli altri due, girai la grossa maniglia nera con la mano libera ed entrai nel magazzino.

La stanza era buia e priva di finestre e lunghi scaffali scuri la percorrevano da una parte all'altra, immobili e statuari. Accesi la luce, avendo cura di chiudermi bene la porta alle spalle, e inserii la sicura alla pistola così da poterla infilare nei pantaloncini senza rischio di ferirmi con un colpo fortuito. Non ero mai entrata nei magazzini dell'ospedale, così percorsi le corsie tra gli scaffali a passo sostenuto, scrutando tra i medicinali ordinatamente disposti nel tentativo di individuare disinfettante, bende e scotch medico: non c'era tempo per suturare la ferita, era invece prioritario fermare l'emorragia.

Il panico dovuto allo scorrere inesorabile del tempo mi sollecitava a sbrigarmi nella ricerca, ma la ragione mi imponeva di essere meticolosa: tra così tante scatole, bottiglie e contenitori di ogni genere, avrei potuto posare gli occhi su ciò di cui avevo bisogno e non accorgermene, proseguendo in un'indagine inutile.

Guardai l'orologio che portavo al polso. Era trascorso oltre un minuto: la mia ricerca richiedeva davvero troppo tempo e, se non avessi trovato ciò che mi occorreva alla svelta, Simon sarebbe morto e mio padre...

Un momento! Mi fermai di colpo, mentre sul mio volto spuntava un sorriso di sollievo. Lo scaffale davanti a me conteneva diverse bottigliette di disinfettante e alcuni rotoli di bende; non vedevo lo scotch medico, ma non avevo tempo per cercarlo. Afferrai alla svelta un rotolo e una bottiglia e mi diressi a passi svelti verso l'uscita, ripercorrendo nella mia mente il percorso che mi avrebbe riportato dagli altri due. Ricordavo con chiarezza di dover svoltare a destra e di dover imboccare le scale, salire un piano di scale e poi... sinistra o  destra? Di certo sinistra...

Così distratta a pensarci non mi ero accorta dell'ombra che era scivolata silenziosamente dentro la stanza. Lo sparo mi colse totalmente di sorpresa.

Mi ritrassi con un urlo, un bruciore intenso al braccio destro, lasciando cadere tutte le scatole che avevo in mano. Mi avevano trovata. Indietreggiai velocemente verso l'altro lato dello scaffale e mi nascosi, estraendo la pistola dai pantaloncini e togliendo la sicura; il proiettile mi aveva colpito solo di striscio, ma percepivo ugualmente il sangue che scorreva giù lungo il braccio. Gettai una rapida occhiata alla ferita: per fortuna il proiettile, che era rimbalzato sullo scaffale alle mie spalle e giaceva a terra a pochi passi da me, mi aveva colpita superficialmente, ma sentivo comunque un male del diavolo e ogni minimo movimento del braccio mi infliggeva dolore. Cercai di ignorarlo e mi concentrai invece su colui che mi aveva sparato e che lo avrebbe rifatto senza remore, pur di impedirmi di tornare da mio padre. Pregai che non avessero raggiunto anche lui e inspirai profondamente, tentando di calmarmi e di trovare velocemente un modo di uscire viva da quella stanza: sentivo il sangue pulsare nelle orecchie e nella gola e il cuore battere contro la cassa toracica, la testa girare e i sensi acuirsi. I medicinali che avevo lasciato cadere giacevano ancora nella corsia alla mia destra, allo scoperto, eppure non potevo andarmene senza.

Feci un altro, tremante respiro, e poi un altro ancora. Inspirare dal naso, espirare dalla bocca, come mi avevano insegnato. Calmare i nervi, rallentare il cuore e concentrarsi. Impresa facile nella sicurezza di un'aula scolastica, più ostica se compiuta a pochi metri da un assassino addestrato e con una ferita al braccio. Eppure questa semplice operazione mi diede la forza di pensare, e di agire: le due cose avvennero quasi in contemporanea, perché il tempo era agli sgoccioli. Un unico pensiero mi invadeva la mente: uscire da lì con le medicine, e dovevo uscire subito. A qualsiasi costo.

Così inspirai un'ultima volta e poi sparai. Sparai in ogni direzione, un colpo solo per non sprecare munizioni. Udii un'imprecazione indistinta ma non indugiai nel tentativo di capire da che direzione provenisse, ricordo solo che quando mi voltai e corsi verso l'uscita, sprecando un secondo per raccogliere i medicinali caduti, non incontrai ostacoli, ma non mi illusi di aver colpito il mio assalitore. Probabilmente lo avevo solo colto di sorpresa.

Mi lanciai contro la porta, buttando in avanti il braccio buono per aprirla con il maniglione antipanico, ma ci andai a sbattere contro. Era chiusa, sigillata. E io mi trovavo dalla parte sbagliata.

Un'ombra entrò nel mio campo visivo. Presa dal panico, il mio istinto prese il sopravvento e sparai senza prendere la mira, con il solo scopo di ferirlo e renderlo inoffensivo.

L'uomo schivò il proiettile, mirò e sparò a sua volta.

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