19 - Dove tutto è iniziato

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Lentamente il nero denso che mi avvolgeva iniziò a dissolversi, lasciando uno spiraglio di luce perché potessi riemergere.

Fu un risveglio lento, all'inizio. Tornarono lievi i suoni e le sensazioni.
Quando però arrivarono anche i ricordi, il processo accelerò e mi ritrovai completamente sveglia.
Man mano che nella mia mente scorrevano i fotogrammi della sera prima, il mio cervello si attivava, finché non fui pienamente cosciente dell'ambiente in cui mi trovavo.

Ero distesa su qualcosa di duro, ma non riuscivo ad alzarmi: polsi e caviglie erano legati da delle cinghie robuste, e vani furono i miei tentativi di liberarmi.

Non potendo muovermi, voltai la testa da entrambe le parti per capire dove fossi. Non ci misi molto, e la paura mi colpì violenta, mentre il mio petto si alzava e si abbassava più velocemente.

Mi trovavo in ospedale, nella stanza numero 9. Legata alla macchina per le TAC.

Questa era tutta opera di coloro che avevano ucciso mio padre, ne ero sicura. La teatralità di quella situazione era sicuramente il frutto malato di una mente instabile.

E Simon era uno di loro.

Oltre alla paura si aggiunsero la rabbia e il dolore. Strinsi i denti per non piangere.
Aveva sempre finto, sempre. Ogni sorriso, ogni sguardo, ogni emozione... tutto falso. Io mi ero aperta con lui, forse mi ero innamorata di lui, mi ero fidata.
Mi ritrovai a dubitare di ogni sua azione. E se il nostro primo incontro non fosse stato casuale? E se fosse stato lui ad informare i federali delle mie indagini?

Faceva male, tanto male. Una persona di cui mi fidavo ora era diventata il mio peggior nemico: un demone travestito da angelo.

Continuavo a ripetermi che mi aveva tradito, che mi aveva conficcato una siringa nel collo, perché ancora non ci credevo.

Mi sentivo stupida pensando alla facilità con cui mi ero lasciata raggirare. Nel profondo tentai di convincermi che era lui ad essere un ottimo attore, e non io che ero caduta davanti ai suoi occhi.

Volevo che fosse così, perché altrimenti voleva dire che non avevo imparato niente, che ero ancora la ragazzina ingenua che mio padre aveva lasciato, e questo bruciava. Eccome se bruciava.

Pensai a mia madre e a mio fratello, e pregai di poterli rivedere ancora. Forse mia nonna avrebbe interpretato correttamente il motivo della nostra assenza all'appuntamento, e avrebbe dato l'allarme.
Visto il luogo in cui mi trovavo, speravo che facesse in tempo.

- Non avresti dovuto immischiarti.

Voltai la testa un paio di volte per capire da dove provenisse la voce, poi puntai lo sguardo al di sopra della mia spalla, in direzione del vetro che divideva la stanza in cui mi trovavo dall'altra.

Riuscii a scorgere la sagoma di un uomo piuttosto alto e vestito di tutto punto che mi fissava da dietro il vetro. Il suo viso era in penombra, ma mi sembrava di averlo già visto, solo che non riuscivo a ricordare dove.

- Chi sei?! - urlai. Lui continuò a fissarmi impassibile, scrutandomi con occhi che non potevo vedere.

Mi irritava da morire il fatto che lui avesse il controllo, mentre io non sapevo nemmeno chi fosse.
Mi osservava con sguardo da cacciatore, uno sguardo che mi faceva rabbrividire.

Quando finalmente parlò, la sua voce mi fece drizzare i peli sulle braccia. Era calmo e ferino, glaciale.

- Voi Davis siete tutti uguali: ficcate il naso in affari che non vi riguardano, quando sarebbe molto più vantaggioso che ognuno pensasse per sé.

Allora lui è uno dei bastardi che hanno ucciso mio padre, realizzai, e sentii il sangue ribollirmi nelle vene.
Ero un misto di paura, rabbia, timore di ciò che mi avrebbe fatto e voglia di vendetta.
Così lo fissai dritto negli occhi ed esclamai: - Non riuscirai a nascondere la verità a lungo!

Seguì un attimo di silenzio, come di stallo, durante il quale le mie parole aleggiarono nello spazio che ci divideva, risuonando minacciose.
Poi lui fece un passo avanti, portandosi finalmente sotto la luce, e solo allora lo riconobbi.

La mia faccia sconcertata doveva essere piuttosto eloquente, perché lui sorrise. - Oh sì invece. Chi altri a parte te, la tua adorata nonna e quella fastidiosa giornalista ne sono a conoscenza? Presumo nessuno.

Non capivo dove volesse andare a parare. Se lui sapeva, se aveva sempre saputo, cosa sarebbe successo ora?

I suoi occhi scintillarono. - E fra poco non resterete nemmeno voi. Finalmente la tua famiglia non mi darà più problemi, giocando a fare l'eroina.

- Intendi uccidere tutti quelli che provano a rivelare la verità?

Non resterete nemmeno voi. Le sue parole erano molto chiare, perciò gli avevo posto quella domanda non perché non conoscessi già la risposta, ma perché così facendo la mia mente si sarebbe concentrata su qualcos'altro che non fosse il panico crescente.

- Lo sto già facendo - mi rispose, spaziando con lo sguardo in tutta la stanza. - A cosa credi che serva ciò che ho fatto?

Confusa, aggrottai le sopracciglia. - Vuoi eliminare gli elementi deboli, creare una società più forte.

Lui mi guardò con falsa pietà, e mi venne il dubbio che ci fosse qualcosa che mi era sfuggito. Il suo sguardo annunciava un colpo di scena, e così fu.

- In parte è così, ma perché uccidere persone che pagano per essere curate, e privarmi quindi del loro denaro?

Scosse la testa. - No, io miro a creare una gerarchia, una società statica in cui tutto rimane come è sempre stato. Ci sono troppe persone, come te e tuo padre, che ficcano il naso nelle vicende che loro ritengono imperfette e cercano di cambiarle, di informarne la gente.

- Non vuoi che nessuno riveli i vostri crimini così da poter continuare a commetterli... - realizzai, sbalordita. Questo papà non lo aveva capito: aveva mal interpretato alcune delle informazioni in suo possesso, fraintendendo il motivo di ciò che stava accadendo davanti ai suoi occhi.

Il nostro governo non voleva che la gente sapesse, voleva sopprimere l'informazione e la libertà di parola. Trasformare la repubblica in dittatura senza che nessuno se ne accorgesse.

Non ci sarebbero stati colpi di stato o annunci al telegiornale, nessun omicidio in diretta del presidente. Tutto sarebbe avvenuto in modo più sottile, sinistro e perverso, in posti come l'ospedale, dove le persone andavano per stare bene.
Per quanto ne sapevano.

- Non ce la farai! Prima o poi questa storia verrà alla luce, e tutti sapranno! - Sapevo che non gli avrei messo paura, volevo solo sfidarlo, fargli vedere che c'erano e ci sarebbero sempre state persone disposte a combattere per i loro ideali.
Per quante ne potesse uccidere, alla fine qualcuno ce l'avrebbe fatta.

Volevo crederci, dovevo crederci, perché lo vidi premere un bottone sulla plancia di controllo, e sentii il ronzio della TAC che si accendeva.

Era finita.

- Beh, immagino che tu non lo saprai mai - disse, rivolgendomi un ultimo sguardo mentre il lettino su cui ero sdraiata entrava lentamente nel macchinario, e io mi graffiavo i polsi nel tentativo disperato di rompere le cinghie che li trattenevano.

- Addio, Lydia Davis. Salutami tuo padre.

Detto questo, il vicepresidente si voltò e uscì dalla stanza.

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